Il LGBTQIAP+ Pride Month si è appena concluso, quindi è il momento migliore per tirare le somme: quanto funziona il marketing arcobaleno? E cosa ne pensa chi lavora nel settore ed è anche LGBTQIAP+?
Chi lavora nel marketing e nella comunicazione sa che giugno è un mese insidioso. In quasi tutto il mondo, infatti, si susseguono manifestazioni volte a celebrare l’accettazione sociale e l’auto-accettazione delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, asessuali, non-binarie e queer, i relativi diritti civili e legali e più in generale l’orgoglio gay (e diciamo “quasi” perché i Paesi in cui l’omosessualità oggi è ancora un reato sono 72). Tutto questo accade principalmente a giugno perché si ricordano i moti di Stonewall avvenuti a New York nel 1969, considerati il momento di svolta per il movimento LGBTQIAP+ moderno. E chi cura la presenza e la comunicazione dei brand – piccoli o grandi che siano – nel pianificare i propri messaggi per il sesto mese dell’anno oggi si ritrova a ragionare un po’ come Nanni Moretti in “Ecce Bombo”: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”.
Il punto – per questa tematica così come per tante altre, come ad esempio la condanna della violenza contro le donne o l’attenzione all’ambiente – è sempre e solo uno: sì, è bello che i brand e le aziende si facciano sentire, ma il rischio è che le iniziative siano solo di facciata. Spesso infatti si limitano a mettere solo arcobaleni qua e là quando il calendario dice loro di farlo, senza intraprendere azioni concrete per migliorare la vita lavorativa, economica o sociale delle persone LGBTQIAP+. Insomma, fanno il cosiddetto rainbow washing.

Perché i brand si interessano alla comunità LGBTQIAP+?
Inutile nascondersi dietro un dito: la comunità LGBTQIAP+ è interessante dal punto di vista economico. Secondo i dati di LGBT Capital, la popolazione LGBT con più di 15 anni conta 371 milioni di individui nel mondo, e il potere di spesa annuale globale del segmento dei consumatori LGBT (misurato come PIL nominale di fine anno 2019) è stimato in 3.900 miliardi di dollari statunitensi. Non esattamente briciole, insomma.
A questo va aggiunto che, secondo diverse ricerche, la comunità LGBTQIAP+ supporta i brand che a loro volta supportano la propria causa, ed è più felice se questi ultimi ne comunicano e trasmettono i valori (ad esempio, per chi fosse interessato ad approfondire, consigliamo la visione del webinar “CMI 16th Annual LGBTQ Community Survey” dell’agenzia statunitense Community Marketing & Insights, in particolare dal minuto 7:50).
Considerando quanto fin qui detto, è comprensibile che i brand si lascino sedurre dal rainbow washing. Ma quanto funziona davvero tutto questo?

La mercificazione dell’arcobaleno è ancora possibile?
Sono diversi anni, ormai, che vediamo arcobaleni ovunque: sui prodotti, nei post sui social network e nella comunicazione in generale. Se all’inizio questo poteva bastare come dimostrazione di sostegno (sostegno a un certo attivismo serenamente demandato a terzi, però), oggi non basta più: è diventato fondamentale fare qualcosa di concreto, che vada ben oltre i messaggi lanciati nell’etere, come effettuare donazioni o mettere in atto altre forme di supporto – come ad esempio creare un ambiente aziendale che faccia sentire a proprio agio tutte le persone, indipendentemente dal loro orientamento sessuale o dalla loro identità di genere. E questo è ancora più evidente visto che nel mondo, e in particolare negli Stati Uniti, una certa legislazione anti-LGBTQIAP+ e in generale restrittiva nei confronti di certi diritti considerati acquisiti sta pericolosamente facendo capolino.
Ai brand, quindi, oggi viene chiesto di fare molto più che mostrarsi Pride-friendly a cavallo tra primavera ed estate. Anche perché alcuni episodi lasciano intendere che gli arcobaleni a casaccio finiscono per essere giudicati dalle persone come fallimenti completi, oppure vengono visti con indifferenza o insofferenza.

Ad ogni modo, i brand che anche quest’anno hanno mostrato pubblicamente supporto alla comunità LGBTQIAP+ con capsule collection arcobaleno, lanciando sui social campagne con hashtag a tema o coinvolgendo negli ADV icone di diversità sono (ovviamente) tantissimi: alcune le abbiamo citate qui.
Quanto ci segui da 1 a Instagram?
Ogni giorno sui nostri social media pubblichiamo notizie esclusive che non puoi trovare sul sito. News, pills, stories e sondaggi per aiutarti a comprendere sempre meglio il mondo del marketing e della pubblicità! Ti basta scegliere a quale canale sei più affezionato e cliccare qui sotto.
Il parere di chi “ci è dentro”
AdAge, storica testata “must-read” per chi lavora nell’industria della comunicazione, ha dichiarato in un recente articolo di aver intervistato alcune persone del mondo dell’ADV per indagare quanti clienti, quest’anno, avessero richiesto comunicazioni Pride-friendly. Pare che molte abbiano risposto che molti brand hanno rinunciato: “I brand hanno dichiarato che non avevano il diritto di inserirsi nella conversazione a meno che non stessero intraprendendo un’azione più ampia per aumentare la consapevolezza o il supporto ai problemi legati alla causa“.
Eppure chi lavora nel campo dell’ADV e appartiene alla comunità LGBTQIAP+, sempre secondo quanto riportato da AdAge, vede i brand considerare il mese del Pride sempre più vicino a festività come Natale, Pasqua o Halloween piuttosto che un periodo orientato all’attivismo.
D’altra parte – come si legge nella newsletter “Between The Lines” di Ella Marciello, copywriter e direttrice creativa da anni promotrice di una comunicazione più inclusiva – il brand activism è una cosa che parte dal coinvolgimento del management e delle prime linee e che può, solo a quel punto, essere declinato su tutto il resto. E, ovviamente, la comunicazione e il marketing sono l’ultimo tassello di questo processo.
In definitiva: arcobaleno sì o arcobaleno no?
Francesca Vecchioni, fondatrice e presidente dell’associazione Diversity – che diffonde la cultura dell’inclusione nel suo senso più ampio, fornisce consulenze alle aziende che vogliono diventare più inclusive e della quale abbiamo parlato qualche tempo fa proprio con proprio con la sua founder – ha dichiarato in una recente intervista: “Il fatto di sostenere o di mostrarsi in qualche modo positivi verso tematiche LGBTQIAP+ non può essere aprioristicamente considerato come negativo, perché se è vero che esiste il rainbow washing, è altrettanto vero che c’è un immaginario collettivo da dover rafforzare”. E aggiunge: “Avere un atteggiamento accusatorio [verso chi fa qualcosa, ma forse non abbastanza n.d.r.] è controproducente: bisogna semmai accompagnare il percorso di crescita delle realtà che manifestano la volontà di sostenere i diritti LGBTQIAP+ e spingere le aziende a lavorare sull’inclusione a 360 gradi. La cosa più importante è sempre la coerenza”.
Insomma: nel 2022, chi si occupa di comunicazione e marketing vive immerso in un clima polarizzato che riguarda non solo la comunità LGBTQIAP+, ma tantissime altre questioni sociali – le discriminazioni di genere, razziali e religiose, l’abilismo e il classismo per citarne solo alcune – ed è oggettivamente difficile risultare sempre incontestabili. Sì, è opportuno che i brand si mettano da parte perché non sono pronti, ma non perché pensano di dover risultare sempre perfetti.