È un vero e proprio movimento culturale quello del brandalism, nato a Londra a luglio del 2012 e cresciuto fino a guadagnare un forte impatto sociale. Abbiamo cercato di saperne di più, indagando su un fenomeno nato come espressione artistica e diventato vera e propria forma di protesta.
A parlare per primo di brandalism è stato, stando a una ricerca effettuata dall’Università Bocconi, nel 2006, Bansky. L’artista britannico, tra i massimi esponenti della street art, nel 2006 volle portare alla luce un nuovo fenomeno, diventato in breve tempo vera e propria forma di protesta, pur essendo al contempo anche movimento artistico e culturale: il brand-vandalism, termine che univa “brand” al concetto di “vandalism”.
In altre parole, danneggiare un brand, un marchio, un nome, forse addirittura la sua reputazione, anche attraverso la sua stesso comunicazione e la pubblicità e perché no, ben meno pacifiche di attivismo.
L’ispirazione e l’approccio del brandalism faranno pensare alle forme di protesta che abbiamo visto di recente, verso monumenti e opere d’arte: lanci di uova, di vernice, utilizzo di colla e tutto quanto ha potuto attirare l’attenzione verso un tema di interesse sociale. Si pensi a Ultima generazione e agli atti che hanno dominato la cronaca ultra-recente anche in Italia. Temi di interesse generale – l’ambiente in primo luogo ma anche le diseguaglianze sociali ed economiche – diventano il fine ultimo, per spostare poi la lente di ingrandimento su di essi attraverso azioni di forte impatto, visivo e sociale insieme.

Ma il brandalism è anche di più: l’attenzione è tutta spostata verso la pubblicità, intesa come espressione diretta del consumismo, ma non in quanto tale. L’obiettivo delle proteste va ricercato anche in quei dipartimenti marketing di grandi brand, che attraverso le campagne pubblicitarie, prendono una posizione abbastanza netta su alcuni grandi temi pur non aderendo realmente alle cause che a parole sostengono.
Per dirla meglio, gli attivisti del brandalism sono intervenuti là dove hanno riscontrato un impegno proteso alla responsabilità sociale ma in forma di greenwashing, l’ambientalismo di facciata, l’impegno a sposare alcune cause al solo fine di diffondere un’immagine positiva di sé, salvo poi contraddirsi nei fatti. In questa contraddizione forse si può riassumere l’obiettivo finale delle proteste.

Il caso del Motor Show di Bruxelles
Uno degli esempi più eclatanti tra i casi di brandalism ce lo riporta AdWweek ed è quello del Motor Show di Bruxelles che si è svolto dal 14 al 22 gennaio. Durante l’evento gli attivisti hanno imbrattato i cartelloni pubblicitari con alcuni messaggi. “Aggiungi il guasto al clima”, recitava un manifesto che raffigurava il logo della BMW su un’auto in fiamme. All’out of home di Toyota è stata aggiunto un messaggio emblematico: “L’obiettivo di Toyota di andare oltre lo zero significa far circolare le auto a gas per i decenni a venire”. I vari interventi sono stati riassunti in un video:
Da Toyota a BMW, da Maserati a Honda, tutte le case auto presenti sono state in qualche modo oggetto di attacco. Gli interventi sono stati firmati dal gruppo Extinction Rebellion che ha dichiarato: “I cartelloni pubblicitari nelle città non menzionano l’impatto che hanno sul clima, quindi è abbastanza semplice capire il perché stiamo facendo questo, vogliamo dirottare l’attenzione non sulle auto, ma su un problema serio”.
Le azioni non sono avvenute solo a Bruxelles ma in tutta Europa, da Londra, a Parigi, a Berlino e sono stati presi di mira oltre 400 manifesti.
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Ambiente, ma anche finanza
In tutto il Regno unito, dal 2014, gli attivisti di vari gruppi hanno dato vita a varie iniziative di protesta.
A Londra, Liverpool, Glasgow, Edimburgo, travestiti da addetti all’affissione, hanno sostituito le pubblicità presenti alle pensiline degli autobus con messaggi contro lo strapotere delle società finanziarie in tema di debito pubblico.
Le poche parole degli attivisti
Non è semplice intercettare le dichiarazioni dei brandalist che cercano nuove forme di protesta provando a restare quasi del tutto anonimo, ma attraverso alcuni canali proprietari (come i blog personali) si possono riscontrare alcune dichiarazioni, diramate tramite portavoce, che di tanto in tanto hanno avuto modo di commentare gli eventi, ma ancora di più hanno provato a spiegare le loro intenzioni e quello che si nasconde dietro alle tante iniziative.
Tona Merriman, portavoce del collettivo, in riferimento alle grandi case automobilistiche (Toyota in particolare), ha dichiarato:
“Toyota ha spinto la sua pubblicità sulla sostenibilità “Oltre lo zero” mentre faceva pressioni sui governi di tutto il mondo per indebolire i piani di qualità dell’aria e minacciava azioni legali per proteggere i propri profitti rispetto a un clima vivibile. La loro pubblicità è ingannevole.”
E a proposito delle agenzie pubblicitarie che lavorano alla comunicazione e alle campagne pubblicitarie ha detto:
“Il fascino e il glamour di stili di vita ad alto contenuto di carbonio, come i voli frequenti, sono stati creati di proposito dall’industria pubblicitaria e non mostrano segni di cedimento, nonostante una delle estati più calde mai registrate. Agenzie pubblicitarie come Ogilvy, VCCP, Dentsu, DDB München devono considerare il loro ruolo nell’aumentare le emissioni delle compagnie aeree per cui lavorano, come British Airways, EasyJet, KLM e Lufthansa. Chiediamo ai dipendenti di queste aziende di rifiutare il lavoro per clienti ad alto contenuto di carbonio”.
Una posizione probabilmente molto netta, destinata a segnare il confine con chiunque rappresenti l’oggetto delle proteste. Certamente le intenzioni di spostare l’attenzione su temi come la tutela dell’ambiente, l’economia, il debito pubblico e le guerre sono supportate da azioni concrete che spesso portano alla luce non solo il problema ma anche l’urgenza di provare a risolverlo.
Brandalism: protesta, movimento o associazione?
Il brandalism sembra quindi crescere tra i movimenti di protesta anche se gran parte dell’opinione pubblica si è interrogata sulle reali intenzioni di questi gruppi.
Dalle manifestazioni sull’ambiente che hanno visto Greta Thunberg la massima esponente, fino al lancio di zuppa contro i girasoli di Van Gogh, è da tempo che si assiste al tentativo soprattutto da parte delle generazioni più giovani di scardinare le porte dei rappresentanti delle istituzioni e del potere (politico, economico, culturale) per far sì che si porti luce sui temi che riguardano il presente ma soprattutto il futuro.

Quello che sembra emergere, leggendo i pareri in merito, è uno scetticismo di fondo a fronte delle varie azioni, talvolta controverse.
Si tratta di episodi isolati? Cosa faranno gli attivisti dopo le iniziative di protesta, tutte alla ricerca di una grande visibilità? Si possono intravedere tracce delle proteste che hanno caratterizzato il ’68 e hanno portato a tanti piccoli ma significativi cambiamenti, come ha osservato all’ANSA anche Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, da tempo impegnato affinché dal rispetto dell’ambiente si produca anche cibo sano, ecosostenibile?
E i brand reagiranno?
Tutte le aziende fin ora brandalizzate non hanno per il momento rilasciato dichiarazioni, ma dall’UE qualcosa sembra muoversi, dal momento che la Commissione europea ha proposto delle modifiche alla normativa in materia di pratiche commerciali scorrette (Dir. 2005/29/CE dell’11 maggio 2005) e diritti dei consumatori (Dir. 2011/83/UE del 25 ottobre 2011) con l’idea di tutelare i consumatori per le scelte d’acquisto sostenibili e di contrastare il greenwashing.
Quello che molti auspicano è certamente un impegno più concreto da parte di quegli attori privati che hanno la capacità di influenzare le opinioni e le azioni del loro target di riferimento e devono non soltanto prendere posizione, ma far seguire alle parole i fatti.
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