Una fetta del mondo dell’adv fa mea culpa sul problema dell’accettazione di sé da parte delle nuove generazioni. La dismorfofobia non è un problema di oggi, ma con l’avvento dei social media e la nascita degli influencer il problema si è diffuso oltre il livello di guardia. Per fortuna c’è chi ha deciso di darsi da fare per cambiare le cose (e non è solo Ogilvy UK)
È di qualche giorno fa la notizia che Ogilvy UK non lavorerà più con influencer e content creator che ritoccano il proprio corpo o il proprio volto. Rahul Titus – Head of Influence di quello che, con 450 uffici in 120 Paesi, è indubbiamente uno dei più grandi network di comunicazione e marketing a livello mondiale – ha commentato la decisione in maniera piuttosto inequivocabile, parlando addirittura di “dovere nei confronti della prossima generazione di persone”. Quasi lasciando intendere che, ormai, a quello attuale il danno è stato fatto.
Va detto che questa presa di posizione di Ogilvy UK non è casuale. Al momento, infatti, il governo del Regno Unito sta vagliando un disegno di legge sulle immagini corporee alterate digitalmente simile a quello approvato quasi un anno fa dal parlamento norvegese: qualora la proposta passasse, i content creator sarebbero obbligati ad aggiungere un logo per segnalare che la propria immagine è stata “abbellita” artificialmente con filtri appositi. Insomma: se una persona è pagata per pubblicare una foto o un video modificato sui social media, e quindi se un brand sta puntando a guadagnare soldi con un’immagine alterata, dovrà dichiararlo esplicitamente. E la questione non riguarderebbe solo quei contenuti editati filtri che potrebbero esagerare l’effetto che il prodotto dichiara di avere (ad esempio, filtri che uniformano l’incarnato del viso utilizzati nelle promozioni di prodotti anti-impurità), ma più in generale qualunque miglioramento estetico dell’individuo rappresentato. Di fatto Ogilvy sta cercando di influenzare la politica, dato che una prima proposta di questo disegno di legge era già stata lasciata cadere dalle camere nel settembre 2020.
Questa notizia ha semplicemente riportato alla ribalta un tema già conosciuto da tempo: il legame tra la rappresentazione delle persone nel marketing e il disturbo da dismorfismo corporeo, più comunemente conosciuto come dismorfofobia.
La dismorfofobia e il bisogno di apparire al top
Da decenni il marketing ha riempito il nostro immaginario di pelli di pesca, occhi grandi, nasi alla francese, capelli folti, ma anche addominali scolpiti, glutei sodi, gambe toniche e proporzioni in linea con il Canone di Policleto.
È sempre parso piuttosto normale un certo grado di ammirazione che diventa volontà di emulazione, così come ha sempre fatto parte della natura umana il desiderio di presentarsi al meglio. I social media, però, hanno reso evidente come la situazione sia poco a poco sfuggita di mano, perché – anche e soprattutto per colpa dei brand – hanno finito per promuovere aspettative e ambizioni utopiche, non realistiche.
L’eccessiva preoccupazione per i propri difetti fisici, che spesso sono immaginari o comunque di entità nettamente inferiore a quanto percepito, in psicologia prende il nome di dismorfofobia. Dietro questo disturbo c’è una percezione distorta del proprio corpo che in alcuni soggetti arriva ad assumere note fobico-ossessive, determinando disagi che si ripercuotono sulla vita sociale, di relazione e lavorativa di chi ne soffre. La persona dismorfofobica, infatti, è seriamente convinta che chi le è attorno veda, critichi, giudichi e derida solo ed esclusivamente i presunti difetti e, di conseguenza, che se quei difetti venissero corretti potrebbe finalmente vivere serena.
Nella vita reale questo disturbo spinge le persone a ricorrere a soluzioni che vanno dai trattamenti estetici più blandi fino alla chirurgia estetica; nella vita virtuale, invece, entra in gioco l’editing di foto e video.
Sui social media, e in particolare quelli dove la comunicazione è prevalentemente visiva come Instagram e TikTok, vengono condivisi quotidianamente video, scatti e autoscatti – sì, i famosi selfie – ritoccati. L’obiettivo è uno solo: mostrarsi nella versione migliore di sé – che, evidentemente, non è quella genuina – per sentirsi meglio. D’altra parte non sarà un caso se sugli store di iOS e Android fioccano applicazioni per il photo e video editing che fin dal naming promettono di soddisfare quell’esigenza, parlando esplicitamente di bellezza (Beauty Plus), regolazioni (Body tune) e perfezione (Perfect365).
Siamo arrivati alla Snapchat Dysmorphia
Nel 2018 un chirurgo estetico britannico, Tijion Esho, ha coniato il termine “Snapchat dysmorphia” dopo aver notato che le persone che richiedevano il suo intervento erano passate a indicare labbra, seni, nasi o zigomi ideali portando con sé non le solite foto di celebrità, ma foto di se stesse in una versione migliorata attraverso i filtri di Snapchat. Insomma: le persone hanno iniziato a voler assomigliare ai propri selfie editati.
È innegabile che i social media abbiano cambiato l’idea collettiva di bellezza, contribuendo a far interiorizzare più o meno consapevolmente ideali estetici utopici alimentati dai filtri correttivi. Ed è difficile non attribuire un certo grado di responsabilità ai brand e agli influencer, che con le loro rappresentazioni tanto perfette quanto artefatte hanno reso sempre più complicato per l’utente che scrolla il feed guardare alle immagini con obiettività, rendersi conto che non tutto è come sembra e non provare sensazioni di inadeguatezza.
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Il movimento “no editing” non è una novità: i casi virtuosi
Nel mare magnum della Corporate Social Responsibility, definita nel lontano 2001 dalla Commissione Europea come “l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”, rientra anche l’attenzione verso le implicazioni psicologiche che le modalità di rappresentazione delle persone da parte dei brand comportano.
Da decenni, infatti, esiste un disagio che è figlio di una scarsa accettazione di sé e del desiderio – che spesso diventa ossessione – di migliorare il modo in cui si appare allo sguardo altrui. Questo disagio, che è esploso con l’avvento dei social network, è spesso al centro di campagne di sensibilizzazione e di contrasto alla manipolazione delle immagini nella pubblicità; spesso, però, queste campagne risultano fini a se stesse, rimanendo degli inviti ad accettarsi per quello che si è e a non farsi influenzare da modelli inarrivabili – che poi quegli stessi brand, però, continuano a proporre. Sic!
Ci sono però brand che credono davvero nel “no editing” e nel tempo si sono dimostrati coerenti con questa presa di posizione. Ad esempio Dove, marchio di prodotti per la cura del corpo della multinazionale Unilever, da anni si fa portavoce della bellezza autentica: celebre è il commercial “Evolution” del 2006, uno spot di 75 secondi prodotto proprio da Ogilvy & Mather all’interno della campagna “Dove for Real Beauty” che mostra il processo di trasformazione dell’immagine di una modella in fast-motion e si conclude con la frase “non c’è da stupirsi che la nostra percezione della bellezza sia distorta”.
Più recentemente – per la precisione un anno fa, a 15 anni da “Evolution” – Dove è tornato a parlare del problema della distorsione dell’immagine con lo spot “Il volto nascosto dei selfie”, nuovamente firmato da Ogilvy. Il video racconta il making of dell’autoscatto di una bellissima giovane donna partendo dal risultato finale – il selfie pubblicato – e andando indietro nel tempo fino allo scatto iniziale; in 60 secondi scopriamo che quell’immagine è il risultato dell’applicazione di vari filtri e correzioni da parte di una ragazzina che – evidentemente – sentiva il bisogno di apparire più grande, più bella e meno “se stessa”. “La pressione dei social media sta danneggiando l’autostima delle nostre ragazze – si legge alla fine – Invertiamo questa tendenza”: è questo il senso di Progetto Autostima, l’iniziativa worldwide di Dove che ha come obiettivo aiutare le nuove generazioni ad avere un rapporto positivo con il proprio aspetto fisico, contrastando quel marketing aggressivo che crea standard di bellezza irrealistici.
Vale anche la pena segnalare che Dove, per portare avanti questa battaglia contro il “no editing”, ha scelto testimonial che tendono ad apparire sempre per quello che sono: in Italia ad esempio sono state selezionate Camihawke per dialogare con le millennial, Sofia Viscardi per le ragazze della Gen Z, Alice Mangione di The Pozzoli’s family per le mamme, Benedetta De Luca per le donne con disabilità e la psicoterapeuta Stefania Andreoli per offrire un punto di vista professionale su una questione così delicata.
Tralasciando Dove e parlando di influencer nostrane che promuovono la body o la skin positivity – o che comunque tendono a mostrarsi esattamente come sono – non possiamo non citare Cristina Fogazzi alias Estetista Cinica, Giulia de Lellis, Aurora Ramazzotti e Matilda de Angelis. Perfino Chiara Ferragni recentemente ha invitato i suoi milioni di follower a non lasciarsi sopraffare dalla smania di raggiungere ideali irrealistici e a vivere serenamente le proprie normalissime imperfezioni, condividendo alcuni scatti in cui mostra chiaramente i segni di un problema che si porta dietro fin dall’adolescenza: l’acne da stress.
Siamo davvero a un punto di svolta?
La risposta è: no, non è il caso di cantare vittoria. Perfino Titus, pur conscio del fatto che Ogilvy UK potrà influire su tutti i brand di cui cura la comunicazione, ha ammesso la difficoltà del cambiamento: “Stiamo parlando di invertire 10 anni di comportamento sui social media e questo non accadrà in due mesi. Sappiamo che ciò che stiamo mettendo in atto non vedrà alcun beneficio immediato per i prossimi cinque anni. È un progetto troppo grande e va bene così”.
La buona notizia è che sembra essere iniziata una fase di presa di coscienza da parte dei brand, anche se ci sarà sicuramente chi cavalcherà l’onda della body positivity sperando di guadagnarne in visibilità e permettendo al dizionario del woke washing di arricchirsi di un nuovo lemma. Ma vogliamo guardare al futuro con ottimismo, con la convinzione che si possa generare profitto anche in maniera responsabile.
Del resto, come ha detto Titus, “i clienti lo vogliono, l’industria lo vuole, gli influencer generalmente ne sono contenti, quindi perché non l’abbiamo fatto prima?“. Già, perché?
Image credits cover: The Drum