In occasione del Black Friday e dell’uscita dell’episodio di Brandy – podcast di Max Corona – parliamo della storica campagna del 2011 che ha spinto Patagonia verso il successo.
Puoi approfondire questa campagna anche ascoltando l’episodio di Brandy qui sotto!
Il Black Friday è uno dei momenti più attesi dell’anno per i consumatori di tutto il mondo. Si ha la possibilità di acquistare a prezzi d’occasione, qualsiasi (o quasi) cosa ognuno desideri. Nonostante l’opinione sul cambiamento climatico e sul consumismo folle che ci ha spinti in questa situazione stia mostrando tendenze di cambiamento, i rimorsi per il destino del pianeta sembrano sparire nell’ultimo venerdì di novembre. Nel 2011 Patagonia, nel giorno in cui tutti gli altri esibivano prezzi scontati e offerte imperdibili, invitava a non comprare uno dei suoi prodotti di punta. Era nata la campagna “Don’t Buy this Jacket”.

Una piccola premessa
Prima di addentrarci sulle ragioni che spinsero l’azienda a compiere un gesto solo in apparenza controproducente bisogna fare un piccolo distinguo sulla parola sostenibilità. Il termine è ormai entrato nel vocabolario comune e molto spesso viene usato in maniera impropria. Secondo la definizione della Treccani il termine sottende una «condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». A questa definizione si arrivò in occasione del rapporto Brundtland del 1987 presso le Nazioni Unite, dove per la prima volta si affrontò il problema dello sviluppo sostenibile.
Nel corso degli anni il concetto è stato rielaborato, modificato e ampliato, fino a raggiungere anche ambiti economici e sociali quali il fair trade e le condizioni dei lavoratori. Si può affermare che il cammino per la sostenibilità è stato e continua ad essere un lento (forse fin troppo) ma continuo progresso.
L’emergere della consapevolezza nella società dei consumi
Il lento percorso fu aiutato da importanti iniziative che si sono susseguite nel corso degli anni e che hanno aumentato la consapevolezza dei consumatori sull’argomento. Ad esempio nel 2011, proprio nell’anno in cui Patagonia lanciava la sua campagna, GreenPeace con la sua campagna Detox lottava per liberare il mondo del fashion dalle sostanze tossiche che venivano rilasciate nell’ambiente per produrre i capi d’abbigliamento, oltre che nel cercare di revisionare tutta la filiera dell’industria.
Bisogna ricordarsi che tutto questo si inserisce in un altro contesto, decisamente diverso da quello in cui viviamo oggi, nonostante siano passati solo 11 anni. Il clima che la società occidentale aveva costruito per decenni aveva raggiunto il suo apice proprio in quegli anni di consumismo sfrenato, grazie alla gentile partecipazione di pubblicità e marketing.
Patagonia in controtendenza
La campagna partì dall’acquisto di uno spazio sul New York Times nella giornata del 25 novembre del 2011. La scelta di comunicare ricadde sul quotidiano nazionale perché considerato il più importante e quindi quello soggetto a una maggiore visibilità da parte del pubblico. Nell’annuncio compariva a tutta pagina la foto di una delle giacche più celebri dell’azienda, l’amatissima R2 jacket, e un titolo laconico e diretto: Don’t buy this Jacket. Nel clima che abbiamo descritto, con tutte le aziende che spingevano i consumatori a forza di saldi all’acquisto compulsivo dei propri prodotti, Patagonia invitava a fare l’opposto. La pubblicità era accompagnata da un vero e proprio manifesto e una serie di consigli.

In sintesi l’azienda fondata da Yvon Chouinard invitava “a comprare meno e riflettere prima di spendere“. La riflessione partiva proprio dal capo d’abbigliamento di maggior successo dell’azienda, prodotto usando 135 litri d’acqua, pari al fabbisogno giornaliero di 45 persone. Inoltre Patagonia ammetteva che durante il suo “viaggio” dal luogo di produzione al negozio, la giacca aveva generato ⅔ del suo peso in rifiuti e prodotto altrettanta anidride carbonica.
L’azienda aggiungeva inoltre che la R2 era stata prodotta con materiali riciclati come il poliestere al 60% e che gli standard di cucitura erano talmente elevati che garantivano una resistenza senza pari nel tempo. E anche nel caso in cui avesse subito l’usura del tempo, Patagonia permetteva di ripararla invece che sostituirla. Tutto questo però non sarebbe bastato a bilanciare l’elevatissimo costo che questo indumento ha sull’ambiente.
Il manifesto si chiudeva si concludeva con la frase: «C’è molto da fare. Non comprare quello che non ti serve».
Alcuni dati
La campagna produsse effetti sorprendenti, anche considerando il messaggio contraddittorio che lanciava. Come conseguenza, ad un anno dall’uscita le vendite sono balzate verso l’alto del 30% con 543 milioni di fatturato, portando nel tempo l’azienda nata nel 1973, grazie a tante altre iniziative come queste, ad un valore stimato di circa 3 miliardi di dollari e un profitto di circa 100 milioni l’anno. Oggi l’azienda è impegnata in tante altre iniziative a salvaguardia dell’ambiente e dei lavoratori e deve a questa prima campagna il suo posizionamento top of mind nella mente di tanti consumatori.

Ad un primo sguardo superficiale questo tipo di campagna può apparire come priva di senso: investire nel marketing per spingere al non acquisto sarebbe controproducente. Allo stesso modo vedere all’interno di un messaggio del genere una sorta di psicologia inversa che invece intimi il consumatore all’acquisto compulsivo dei prodotti di questo brand è fuorviante rispetto a quello che è l’azienda propone e ha proposto nel corso degli anni. L’azienda non crede in una produzione di comunicazione massiva per vendere i propri prodotti. Nell’idea del fondatore la mission deve essere quella di ispirare ed educare, più che promuovere. Effettivamente quando l’azienda ha investito nel marketing è stato solo per promuovere certe iniziative e per sensibilizzare il pubblico.
Tutta la campagna dunque appare forse più come un preciso tentativo di posizionamento nei confronti del proprio target che di green washing o di semplice strategia originale e diversa. In fondo l’iniziativa non è altro che una differenziazione rispetto ai propri competitor: è un’azione che ha come scopo produrre una consapevolezza ambientale, che porta tra le tante cose, ad un vantaggio competitivo. Anzi a distanza di anni si capisce meglio che Patagonia ha come obiettivo la diffusione di un messaggio diverso.
Partendo dal presupposto che la natura aziendale è comunque sempre volta al profitto e che, d’altro canto, l’obiettivo finale non sia non inquinare del tutto, ma, per riprendere la definizione iniziale della Treccani, non compromettere il futuro delle nuove generazioni, la campagna di Patagonia risulta più comprensibile.
Ci leggiamo presto!
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Image credits cover: Patagonia