Meno di una settimana alla notte del Big Game e soli due brand dell’automotive hanno opzionato la loro concessione: è la prima volta nella storia. Cosa si cela dietro questa ferma diserzione? Proviamo a fare chiarezza sul fenomeno in questo approfondimento.
C’era una volta il Super Bowl in cui l’automotive faceva la parte del leone.
Quando, tra un passaggio e l’altro sul green di gioco, gli spettatori attendevano sognanti una fiaba brandizzata a quattro ruote più del touchdown allo scadere della propria squadra del cuore.
La presenza incrollabile dei grandi costruttori al Super Bowl fa dell’archivio creativo del Big Game una sorta di cronistoria di quello che è stata l’automobile per il consumo di massa in Occidente. Di più, è una radiografia che ha un indubbio valore storico. Un esempio? Prendete questo spot di Chrysler, trasmesso nel 2009.
Troverete molto più di una lussuosa berlina: Imported from Detroit è uno di quei commercial che sconfinano nella saggistica, che elevano la pubblicità a collettore di narrazioni economiche, sociologiche, financo patriottiche. Due minuti e diciotto secondi di pamphlet, in cui una delle aree metropolitane più complesse degli States, in un momento drammatico della sua storia, si rialza, gonfia il petto e ritrova l’orgoglio di essere sé stessa.
Il silenzio assordante di un’assenza
Gli esempi potrebbero sprecarsi e questa non è e non vuole essere un’analisi verticale, ma ci basti un dato: all’ultima edizione del Big Game, nel pieno del biennio nero di un automotive ostacolato da chip shortage e filiere globali in stato di evidente anarchia, ad acquistare una concessione furono KIA, Toyota, BMW, General Motors, Chevrolet, Nissan e la new entry Polestar – startup attiva nella mobilità elettriche. Se non l’industria automobilistica mondiale al gran completo, almeno una sua porzione piuttosto rappresentativa.
Dodici mesi dopo, la sola KIA ha opzionato uno slot. A questa si è aggiunta poco dopo General Motors, che parteciperà in una formula ibrida: un co-branding con Netflix che sembra più guardare alle ricche possibilità di placement nelle serie della grande N che al pubblico del Big Game in sé e per sé. Toyota, probabilmente il brand più presenzialista della storia della manifestazione (per capirci, si è presentato nelle ultime undici edizioni consecutive), se ne è letteralmente andata sbattendo la porta. Come ci raccontava Alan Conti citando fonti americane, da Aichi fanno sapere che “ogni anno valutiamo la possibilità di esserci, ma stavolta i tempi non sono allineati con le nostre strategie”.
Anche l’indotto della mobilità in extenso sembra impermeabile al richiamo della giungla: servizi come Vroom, che l’anno passato ci avevano sorpreso con prodotti di fino non sono ancora pervenuti tra le fila degli inserzionisti. Resta l’incognita Stellantis e la sua galassia di marchi: c’è chi spera in un annuncio dell’ultimo minuto, ma per ora siamo nel terreno della speculazione.
Disclaimer: a poche ore dalla pubblicazione di questo articolo, Stellantis ha annunciato di aver acquistato uno slot per i marchi Jeep e Ram.
Dove diamine sono finiti i colossi dell’automobile e perché schivano con tanta fermezza l’evento pubblicitario dell’anno, dove usualmente giocano da padroni di casa ? La risposta – ed è un cliché in casi come questo – non è una sola e non è semplice.
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Il colpevole che t’aspetti: un mercato in ginocchio
L’advertising è un fatto sovrastrutturale a dinamiche di mercato ben più gravose di un concept creativo da sviluppare al Big Game. Questione che possiamo toccare con mano analizzando i numeri dell’industria automobilistica americana nel 2022. Il mercato USA registra un -8% sul 2021, che tradotto in soldoni significa un ammanco di 14 milioni di veicoli venduti sull’anno precedente: più di uno per ogni abitante della Lombardia. Abituati come siamo ad agire nel perimetro di industrie ultra-terziarizzate, non abbiamo idea di cosa possa avere vissuto nell’ultimo triennio un settore fatto di bulloni e lamiere come l’automotive. La pandemia, i suoi strascichi, la crisi dei semiconduttori e la corsa folle dell’inflazione sono stati per il comparto una gragnola di mazzate, che senza soluzione di continuità ha continuamente ritardato la ripresa dell’industria automobilistica. Per corroborare queste affermazioni di generica con qualche dato, Automotive News sostiene che i volumi di business del mercato mondiale siano regrediti al giro d’affari del 2011, mentre Standard & Poor’s ipotizza che in Europa e USA la ripresa sarà possibile, stando al forecast più ottimista, non prima del 2026.

La latitanza delle quattro ruote nella notte del Big Game è un fedele specchio di un mercato alle prese con una logorante lotta per la sopravvivenza? Forse, ma in un bagliore di questo riflesso si scorge anche una dinamica più sottile, che apre interrogativi giganteschi. Ovvero: è necessario un film da 10 milioni di dollari per vendere un’automobile? E questo è il dubbio che emerge nella dichiarazioni di una serie di decision maker di rango scelto.
Quello che t’aspetti meno: un ripensamento generale della customer journey di settore
“La naturale curiosità dei consumatori nei confronti dei veicoli elettrici ha offerto alle case auto la possibilità di spendere meno in pubblicità e attirare comunque un’attenzione significativa sui loro progressi tecnologici. I veicoli elettrici diventeranno merce sempre più comune nei prossimi anni, la pubblicità tornerà ancora una volta a essere necessaria per emergere dal rumore di fondo. Ma nel preciso momento storico in cui ci troviamo, la tecnologia parla da sé.” No, non è il parere di un insider canaglia che vuole emergere con la boutade dell’anno sulla stampa, è parola di Jessica Caldwell, Executive Director della divisione insights di Edmund’s, prestigioso organo d’informazione di settore sul mercato americano. Raggiunta da AdAge, Caldwell ci racconta di un fenomeno che parla chiaro e che ha in Tesla il suo esponente più vistoso: un ribaltamento totale della customer journey come l’abbiamo fin qui concepita. Se volete approfondire, ve ne avevamo parlato a lungo in questo approfondimento dedicato, ma in fondo è una dinamica estremamente semplice e potremmo riassumerla con una constatazione apodittica: l’innovazione, oltre a una certa massa critica di disruption, non ha bisogno di boost per emergere. L’innovazione si vende da sola.

Image credits: repubblica
È un metodo che il buon Musk conosce bene, sul quale ha fatto una curiosa e personalissima economia di scala. Tesla prima e ora ChatGPT: il magnate sudafricano non è CEO di OpenAI, ma è stato una pietra miliare del board di finanziatori da cui si è dimesso solo per ragioni di conflitto d’interessi. Che bisogno di pubblicità può mai avere un’interfaccia onnisciente, capace di rappare, scrivere comunicati stampa e fornire prestazioni consulenziali in qualunque lingua parlata al mondo?
La teoria sembra oltretutto acquisire fattezze di pratica anche nelle dichiarazioni dei CEO del settore. L’AD di Ford Motor Co. Jim Farley lo ha detto senza mezzi termini: “Se mai vedeste Ford Motor Co. lanciare una ad al Super Bowl riguardante i nostri veicoli elettrici, vendete le azioni”.
Per tirare le fila, il gioco è più complicato di quello che una semplice crisi del comparto possa suggerire e come sempre, in casi come questo, è bene cercare di innalzare lo sguardo oltre allo steccato dei bilanci in perdita o delle supply chain ferme.
Per raggiungere potenziali clienti oggi rispetto all’era d’oro dell’adv catodico – pur in quella notte da 200 milioni di occhi – le opportunità sono plurali e l’omnicanalità sempre più via maestra.
La strategia (o il suo totale ribaltamento) pagheranno? Lo constateremo entro breve.
Continuate a seguirci per aggiornamenti quotidiani sulla LVII edizione del Big Game e oggi come sempre…
Ci leggiamo presto!
Image credit cover: Roads & Track