L’evento più atteso dagli americani, previsto per il prossimo 12 febbraio, è arrivato alla sua cinquantasettesima edizione. Riflettori puntati sui Super Bowl ads anche quest’anno che, insieme l’Halftime Show, sono il popcorn preferito di un pubblico che tocca i 100 milioni di spettatori. Specie se sono… scandalose.
Che sogno il Super Bowl. La finale di campionato della National Football League americana vede scontrarsi due delle migliori squadre di football – rispettivamente e storicamente forti in attacco e in difesa – davanti a una platea di spettatori di dimensioni tali da superare qualsiasi campionato a livello mondiale.
Eppure, non è la partita a essere al centro del palcoscenico. Una ricerca di Cision e PR Newswire, agenzia statunitense di pubbliche relazioni, ha sottolineato che è la pubblicità il motivo per cui vedere l’intero match per il 43% dei consumatori, che hanno desiderata specifici di anno in anno. Desiderata che brand del calibro di Apple, Pepsi e Lay’s cercano di intercettare con spot di almeno 30 secondi.
La ricerca evidenzia una delle verità al centro dell’evento sportivo: l’advertising è la chiave d’accesso alle opportunità di business, in cui coinvolgere il giusto protagonista diventa l’ago della bilancia che segna l’attenzione del pubblico. Super Bowl commercials che sfruttano l’aplomb delle celebrità più in voga del momento catturano gli occhi degli spettatori nel 54% dei casi: il pubblico andrebbe in visibilio per uno spot con Lady Gaga, Taylor Swift o Britney Spears, rispettivamente al secondo, quinto e sesto posto nella classifica delle preferenze stilata dall’agenzia.
La diffusione degli annunci prima della partita, tuttavia, è in contrasto con gran parte delle aspettative dell’audience: durante il match, l’89% degli spettatori preferirebbe vedere un Super Bowl ads per la prima volta, che dovrebbe puntare a far ridere (97% delle preferenze), stare ben lontano da messaggi politici (71%) ed evitare assolutamente call to action immediate come postare sui social o persino votare (70%).
Insight preziosi che farebbero la differenza in una sola notte, in cui ogni secondo vale 190.000 euro: sarebbe una mossa d’azzardo portare al Super Bowl delle pubblicità poco performanti, soprattutto durante l’Halftime Show. L’esibizione musicale tra il secondo e il terzo tempo di gioco catalizza l’attenzione degli spettatori e rappresenta il culmine degli ascolti televisivi negli Stati Uniti: l’headliner indiscussa non è altri che Rihanna quest’anno, che saprà mettere in piedi uno spettacolo senza che qualcosa vada storto.
Il Super Bowl è infatti ricco di avvenimenti e réclame che sarebbero potuti andare diversamente. L’imprevedibilità della diretta televisiva può trasformare un evento sportivo in uno scontro (e scandalo) generazionale che può depotenziare o, peggio, annichilire strategie di branding che vanno ben oltre il singolo prodotto. Vedremo per questo una carrellata di polemiche e flop che hanno segnato la storia dell’evento e dei suoi commercial, a partire dal Nipplegate.
Super Bowl ads, il Nipplegate che fece scandalo (ma la fortuna per YouTube)
L’Halftime Show del Super Bowl del 2004 è passato alla storia come uno degli episodi più scandalosi della televisione statunitense, che ha offuscato tutte le performance canore previste nell’arco dei canonici quindici minuti di concerto.
“Voglio scusarmi direttamente con Britney Spears e Janet Jackson, perché ci tengo, rispetto queste donne e so bene di averle deluse.” Questo le parole di Justin Timberlake vent’anni dopo in occasione del documentario Framing Britney Spears, che toccano da vicino non solo la pop star ed ex fidanzata, ma anche la sorella di Michael Jackson con cui ha condiviso il palco del trentottesimo Super Bowl.
Alla fine di Rock Your Body Timberlake strappa parte del bustino di Janet, lasciandole il seno scoperto per mezzo secondo e davanti a 150 milioni di spettatori. L’incidente, poi noto come Nipplegate o Janetgate, ha dato vita a una discussione rovente sull’indecenza trasmessa in televisione, con un numero record di denunce inviate alla FCC (Federal Communications Commission, che si occupa di norme e standard tecnici per le telecomunicazioni) poco dopo lo show.
All’indomani dello scandalo, le conseguenze peggiori non tardano ad arrivare. A capo della produzione musicale, MTV si vede esclusa dai futuri Halftime Show mentre viene imposto un bando a singoli e video musicali della cantante all’interno di tutti i palinsesti della CBS, che all’epoca trasmetteva l’intero match. Porta in faccia per Janet anche la settimana successiva, a cui non viene concesso di partecipare ai Grammy Awards.
A nulla valgono le spiegazioni dei due. L’incidente è stato totalmente involontario, perché Timberlake avrebbe dovuto tirare solo la parte più superficiale del bustier, così da mettere in luce solo parte del reggiseno di pizzo rosso. Un colpo che ha inabissato la carriera di Dunk – come la chiamava ogni tanto il fratello Michael – ma che ha dirottato radicalmente la strategia di crescita di YouTube.
Nel 2004 non c’era modo di rivedere il Super Bowl, a meno che non lo si fosse registrato. Questa verità analogica nasconde l’esempio più potente della FOMO (Fear Of Missing Out), oggi pietra miliare del marketing più spinto: sebbene allora milioni di spettatori avessero visto l’Halftime Show, altri milioni non ne avevano avuto l’occasione. Il blitz mediatico che seguì il Nipplegate aumentò notevolmente il numero di abbonamenti a TiVo – uno dei primi videoregistratori digitali originali – proprio per rivivere quella performance, ma non fu abbastanza per Jawed Karim, Chad Hurley e Steve Chen.
Un anno dopo l’evento, durante una cena, il trio tech di Paypal non riesce a trovare online nessun video del Nipplegate nonostante tutti ne parlassero ancora. Per ovviare al problema, iniziano a lavorare al codice di un sito in cui caricare contenuti per rivederli a distanza di tempo: YouTube nasce così a San Mateo nel 2005, una piattaforma che fa ancora storia per quelle pubblicità del Super Bowl che hanno colpito il pubblico in maniera un tantino diversa rispetto a quanto immaginato dai loro Creative Director.
Super Bowl ads, lo scandalo dei commercial colpisce duro
I Super Bowl ads vengono generalmente inquadrati come degli spot televisivi di alto profilo per il pubblico statunitense, diventati nel tempo un elemento distintivo della cultura a stelle e strisce proprio per la portata demografica del Big Match. Per questo motivo, gli inserzionisti sfruttano queste réclame per costruire una brand awareness più forte e in meno tempo, generando al contempo buzz attorno alle clip pubblicitarie con l’obiettivo di moltiplicare la media exposure.
In una parola, viralità. Se da un lato la grande lente dell’opinione pubblica non viene mai oscurata – sondaggi nazionali come il Super Bowl Ad Meter di USA Today valutano quale Super Bowl ads ha ottenuto la miglior reazione da parte del pubblico – dall’altro, i grandi nomi delle agenzie pubblicitarie puntano a rendere il più memorabili possibile i marchi più importanti del globo – tra l’altro noti per le loro ripetute apparizioni durante l’evento.
Il passo da top a flop può essere però molto breve per le pubblicità del Super Bowl. Pubblico e critica hanno reputato controversi diversi commercial, alcuni dei quali sono stati banditi sul network televisivo degli Stati Uniti per un contenuto giudicato scandaloso e al di là delle norme etiche e legali della rete in cui sarebbero andati in onda.
Curiosi? Vediamone qualcuno qui di seguito.
Super Bowl ads, il Robot Suicide della General Motors
Dei tre Super Bowl ads su cui General Motors (GM) puntava nella roulette del quarantunesimo Super Bowl, “Robot” è stato sicuramente il commercial che ha guadagnato l’attenzione mediatica sul lungo periodo. A firma della Deutsch Los Angeles Interpublic, lo spot del 2007 si focalizza sull’ossessione di General Motors per qualità delle sue auto, ma con il supporto insospettabile di un robot giallo, parte della catena di montaggio.
Basta un errore per essere fuori dai giochi. Far cadere un bullone non è previsto nell’operatività quotidiana della fabbrica, che segna subito il licenziamento del protagonista: All By Myself in sottofondo segna l’inizio della climax ma non attenua la dissonanza conclusiva dello spot – che sembra andare oltre i canoni classici dell’ironia.
Il robot si suicida. Se inizialmente GM ha cercato di difendere la sua creatività, cinque giorni dopo il primo On Air viene meno la scena del salto dal ponte e l’addio ai Grammy Awards di quell’anno, dove viene sostituito da un altro spot perché “la versione editata non poteva essere pronta in tempo”.
Super Bowl ads, quando Jesus Hates Obama per il merchandising
Nella categoria delle creatività bandite direttamente da Fox per il Super Bowl ricadono tutte quelle spiccatamente politiche e, allo stesso tempo, caratterizzate da riferimenti spirituali markettari.
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In questi gloriosi 30 secondi a cura del sito conservatore JesusHatesObama.com, un Gesù dal piglio sdegnoso sembra non apprezzare il sogghigno di Obama mentre, in sottofondo, risuona netto il canto popolare della guerra civile americana The Battle Hymn of the Republic.
Un canto che segna la disfatta di Obama solo per promuovere il merchandising del sito. Un “brand” che, con buona probabilità, non si aspettata di entrare nel roaster di commercial candidati al Super Bowl del 2011.
Super Bowl ads, superstar a luci rosse per Ashley Madison
Il 2011 è stato un anno faticoso per Fox, che ha dovuto fare i conti con pubblicità che sfioravano il limite pubblico della decenza. In questo spot, il celebre sito per incontri illeciti e affair Ashley Madison ha reclutato una delle star dell’industria pornografica, Savanna Samson, con l’obiettivo di rafforzare la brand identity con il suo claim d’effetto – Life is short. Have an affair.
Da impiegata che scopre clamorosamente il tradimento del marito, Savanna decide di rifarsi flirtando con alcuni dei suoi colleghi fin quando non compare il primo di una serie di plushie – una persona vestita da peluche – che inizia a stuzzicarla in sala conferenze. La clip integrale è stata rimossa dopo il rifiuto di Fox ma sono ancora disponibili alcuni take online.

Image Credits: Ashley Madison.

Image Credits: Nesn.
Super Bowl ads, la missione dal sapore neocoloniale per Just For Feet
Se torniamo indietro al 1999, quanti commercial possono essere definiti figli di un imperialismo culturale che continuava a brillare, purtroppo, fuori dai radar? Ricade in questa categoria lo spot di Just For Feet, il retailer di calzature che ha speso ben 7 milioni di dollari per il Super Bowl – “solo” per promuovere l’ampia scelta di scarpe all’interno dei suoi store.
Corre a piedi nudi il kenyota protagonista della clip, mentre viene inseguito nella savana da un corpo militare in Humvee che riesce nel suo intento: drogarlo con un bicchiere d’acqua. In una sorta di incubo coloniale, il corridore si risveglia con un paio di Nike ai piedi, ormai impossibili da togliere.
Dopo una reprimenda a livello globale Just For Feet ha incolpato direttamente Saatchi&Saatchi, l’agenzia che ha seguito lo sviluppo delle creatività, intentando una causa legale per negligenza che ha portato alla débâcle – la bancarotta dell’anno successivo.
Conoscete altre Super Bowl ads che hanno reso più colorito l’evento più atteso dell’anno in America? Stay in touch: anche quest’anno Gazzetta, la notte del 12 febbraio 2023, vi racconterà il meglio del gala pubblicitario per eccellenza!
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