L’evento televisivo più atteso dell’anno, in America, è divenuto tale grazie a un media mix finemente calibrato. Sport, intrattenimento e spot d’autore spingono ogni anni cento milioni di americani a sintonizzarsi sulla finale della NFL. La pubblicità riveste in questo un ruolo di assoluto protagonismo.
Scartabellando le fonti alla ricerca di dati statistici sul Super Bowl emergono cifre di straordinario rilievo, gran parte delle quali nell’ordine numerico dei milioni. Forse, il dato più eloquente di tutti risiede in una tabella, scovata nei meandri più remoti del web, che elenca le venticinque trasmissioni più viste della storia della TV americana. Il Super Bowl occupa diciannove posizioni tra quelle disponibili. Per rendere l’idea del seguito che la finale nella NFL riesce ad attrarre, basti pensare che gli unici eventi in grado di creare ascolti televisivi analoghi siano stati fatti storici con la F maiuscola: le dimissioni di Nixon dopo il Watergate o lo sbarco sulla Luna dell’Apollo XI. L’occasione è una delle grandi liturgie profane su cui si fonda l’american way of living: una notte capace di richiamare in adunata oltre a cento milioni di fedeli statunitensi attratti da un mix di sport ed entertainment ad altissimo potenziale. Nel gioco delle forze mediatiche in campo la pubblicità riveste, se non il ruolo primario, quantomeno quello del coprotagonista. Varie survey hanno dimostrato che, quello che era nato come un grande evento sportivo, attrae oggi metà dei suoi spettatori con i commercial trasmessi negli intermezzi pubblicitari. Le concessioni raggiungono prezzi di mercato proibitivi; conti salatissimi, alla portata di un novero di portafogli esclusivo. Eppure, lo status quo è radicalmente cambiato dalle prime, pionieristiche edizioni. Come abbiamo spiegato in questo pezzo, nel 1967, in occasione del Super Bowl I, uno spot di 30 secondi veniva a costare appena 42000 $: al valore attuale del dollaro, quasi 330000 $. Un conto salato, ma ben lontano dai 5,5 milioni di dollari richiesti per uno spot oggi.
L’inflazione del valore di questi slot deriva dall’audacia creativa dei primi trent’anni di commercial, in cui agenzie e brand hanno infuso genio, avanguardia e rischiosi esperimenti comunicativi nelle pause tra un tempo e l’altro del match. La qualità di questi commercial ha reso la finale della NFL un evento mondiale, capace di attrarre un pubblico trasversale e numerosissimo, interessato più allo show creativo che a quello che avviene sul rettangolo di gioco. Andremo a ripercorrere, attraverso una sommaria carrellata, 6 esempi di commercial che hanno reso il Super Bowl il galà pubblicitario più atteso di tutti i tempi.
XEROX , THE MONK – SUPER BOWL XI
Siamo nel 1977, e l’elettronica di consumo comincia silenziosamente a insinuarsi nelle case di milioni di americani. Xerox lancia un modello di fotocopiatrice, la 9200, capace di altissime prestazioni. Il macchinario è enorme e costoso e i possibili acquirenti pochissimi. Eppure lo spot trasmesso in occasione del Super Bowl rende l’apparecchio celeberrimo, gettando le basi per la futura leadership del marchio sul mercato mondiale.
Questo commercial di un minuto, che sembra uscire dalla fantasia di Umberto Eco, gioca su uno spassosissimo what if: un copista medievale in saio, oberato di lavoro, scopre le meraviglie della moderna fotocopiatrice elettronica. Un cortocircuito ucronico da applausi per uno dei commercial più amati di sempre.
HEY KID, CATCH!, COCA COLA – SUPER BOWL XIV
Anno 1980: Coca Cola entra nel pantheon dei brand divenuti sinonimo di Super Bowl e lo fa con un colpo degno del colosso di Atlanta. In questo spot, il difensore dei Pittsburgh Steelers mean Joe Greene rientra acciaccato negli spogliatoi dopo un contrasto. Un ragazzo, dopo avergli chiesto aiuto, gli lancia una bottiglia di Coca Cola. Mean Joe, dopo aver riservato al giovane un trattamento degno del suo nome di battaglia, accetta il pegno e lo sorseggia con gusto. Addolcito dalla bibita, ringrazia il giovane aiutante regalandogli la maglia.
Un annuncio d’impostazione classica, ma che non poteva non essere inserito: in America si tratta di cult transgenerazionale. Parodiato dai Simpson e da Procter & Gamble, è stato addirittura soggetto di un remake nel 2015. Inutile aggiungerlo: Hey Kid, Catch! è espressione divenuta idiomatica nell’inglese americano di oggi.
1984, APPLE – SUPER BOWL XVIII
Stiamo per scomodare il secondo gigante della letteratura del pezzo, e la ragione è questo grande classico targato Apple. Sullo spot ispirato a George Orwell e firmato da Ridley Scott è stato detto letteralmente tutto quello che si poteva dire. Vorremmo distinguerci aggiungendo un elemento: lo spot non sarebbe mai dovuto andare in onda.
Costato una cifra monstre per gli standard dell’epoca, fu voluto da Steve Jobs in persona. Il risultato finale lo lasciò sbalordito, e Jobs – che già allora era Steve Jobs – volle fare le cose in grande: data la lunghezza dello spot fece acquistare due slot pubblicitari da 30 e 60 secondi, per riuscire a trasmetterlo in versione integrale. L’entusiasmo fu tale che si dimenticò di consultare previamente il CDA Apple, il quale a sorpresa cassò lo spot per la sua audacia. Apple fu costretta a cercare di rivendere entrambe gli slot acquistati, ma a causa del prezzo e dei tempi stretti non fu possibile trovare acquirenti. A quel punto, rassegnato, il CDA diede il suo assenso e il commercial fu trasmesso, divenendo un cult capace di far parlare di sé a distanza di quasi quarant’anni.
LE CAMPAGNE DELLE DOT-COM, 2000 – SUPERBOWL XXXIV
Startup, venture capitalism, Silicon Valley, acceleratori. Un gergo ormai divenuto comune, ma che nasce proprio a cavallo del nuovo millennio in USA. Siamo all’inizio del decennio che ha forgiato l’economia digitale come la conosciamo oggi. Internet, ancorché rudimentale, è un territorio di frontiera capace di attrarre un costante flusso di finanziamenti. Fioriscono le cosiddette dot-com, startup con un altissimo potenziale di crescita, che propongono idee più o meno dirompenti. Il Super Bowl di quell’anno risente di quest’effervescenza, tantoché passerà alla storia come il dot-com Super Bowl. Dei 130 milioni di dollari di budget stanziato per le concessioni, 44 vengono spesi da startup attive nel digitale.
Eppure, il dilettantismo con cui le dot-com si presentano al mondo lascia presagire il tracollo che queste avventure d’impresa fronteggeranno pochi anni dopo, con lo scoppio di una delle più grandi bolle speculative della storia. Memorabile il commercial di lifeminders.com. Il servizio d’invio di mail personalizzato sceglie di calcare la passerella pubblicitaria dell’anno rivendicando la propria sciatteria come motivo d’orgoglio: lo spot si autoproclama The worst commercial on the Super Bowl, il jingle in otto bit pare uscire da un b-movie e il comparto grafico rasenta l’imbarazzante. La mitologia sul tema vuole che il tutto sia stato realizzato dal founder in soli sei giorni. E vedendolo non si stenta certo a crederci.
Più successo ebbe il commercial di pets.com, un antesignano di Amazon specializzato in cibo per animali da compagnia. L’insight è anche brillante, ma il jingle, la marionetta e le visuals fanno pensare, anche in questo caso, a una produzione fai-da-te poco consona alla grandeur dell’evento. Curiosamente, lo spot fu amatissimo e divenne virale. Questo non impedì a pets.com di venire rilevata in seguito a un rovinoso fallimento.
IMPORTED FROM DETROIT, CHRYSLER, 2011 – SUPERBOWL XLV
La città di Detroit vive da sfortunata protagonista la crisi economica mondiale del 2008. La capitale dell’automotive americano, da distretto produttivo senza rivali nel mondo, si riscopre improvvisamente povera, violenta e marginale. Il colosso Chrysler viene salvato dalla bancarotta solo dall’intervento del Governo Federale. Si sente la necessità di una rinascita, fondata sull’orgoglio di un luogo frenetico, unico e fiero della propria specificità.
Ed è proprio il pride of Detroit che Chrysler decide di tematizzare, in questo commercial da brividi. La voce narrante rimarca l’appartenenza ad un’altra America, lontana dallo scintillio di Manhattan (No, this is not New York City). Lose yourself di Eminem detta i tempi di un commercial che fa gridare al capolavoro e che non a caso sarà insignito di un Emmy Award.
LA MAGIA DEL SUPER BOWL IN ARRIVO
Campagne come questa mostrano come uno spazio nel Super Bowl sia l’occasione di visibilità migliore per garantirsi la top of mind dei consumatori. L’evento è il galà più prestigioso dell’advertising contemporaneo, e quest’anno La Gazzetta del Pubblicitario ha elaborato un progetto ambizioso e inedito: narrarlo, in diretta, spot per spot. A partire dalla mezzanotte del 7/02 saremo presenti con cronaca live e pagelle di ogni creatività in campo. Vi aspettiamo numerosi!