Relegati spesso ad appendice priva di qualunque fascino in strategie di comunicazione sempre più social-centriche, i blog aziendali sono uno strumento che offre innumerevoli possibilità. Ecco un’analisi e qualche numero per capire come e perché.
Nella startup di un qualunque progetto di comunicazione digitale esiste un cliché d’agenzia che nel chiacchiericcio che prelude brainstorming (e relativa compilazione del preventivo) emerge quasi inevitabilmente; un adagio che – almeno da chi è entrato nel settore nell’ultimo quinquennio – è ormai stato mandato a memoria, introiettato come si faceva alle elementari con certe poesie del canone della letteratura italiana.
“I blog aziendali sono vecchi“.
Non è un paese per blog
E per “vecchi” si allude non tanto al registro classico della comunicazione via corporate blogging in sé, ma al canale. Come se l’url di un sito proprietario, nell’epoca dell’onnipresenza social, fosse un atto di sovversione antistorica, una sonata per clavicembalo mentre là fuori tutti ci danno dentro con synth e autotoune. Il detto cliché nasce dalla percezione che condividere informazioni fuori da una piattaforma social sia per un brand qualcosa del tutto privo di una logica. Come se web e social fossero ormai la stessa faccia della comunicazione digitale, che la generazione di insider più verdi fa fatica a immaginare fuori dai confini dei vari Instagram, YouTube e TikTok, quando in realtà questa ha prosperato a colpi di https:// per quasi vent’anni prima di Zuckerberg. Secondo questa logica qualunque grande brand dovrebbe abbandonare quindi l’idea di curare una strategia di content marketing sul proprio sito, perché sempre di complessa realizzazione, costoso mantenimento e tale da necessitare di un team interamente dedicato.
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No, i blog sono in formissima
Sarà, ma facciamo un’analisi a campione. In redazione abbiamo estratto dal bussolotto il nome di cinque big brands: tre esteri e due italiani per evitare un’analisi troppo incentrata sul campanile. Ne sono usciti Alfa Romeo, Tampax, Reebok, EasyJet e Nutella. Direttamente o indirettamente, con l’esplicita dicitura “Blog” o come più ampia e variegata offerta di contenuti redazionali aggiornati, ognuno di questi marchi ha uno spazio editoriale sul proprio sito – che trovate linkato sopra.
I blog aziendali o, più in generale, le strategie di content marketing out of platform sono tutt’altro che morte; anzi, stanno in realtà benissimo, e per una molteplicità di ragioni.

Il piacere di raccontarsi in casa propria
Al di là del posizionamento SEO (che da solo, se ben curato, basterebbe a legittimarne l’esistenza), un canale “proprietario” fa gola a chi fa comunicazione digitale per molte ragioni. Una di queste è che la propria comunicazione va, a nostro avviso, immaginata come un investimento a lungo termine che non risente di bizze e fluttuazioni di un social media scenario sempre più tempestoso.
Se questo, fino dieci anni addietro, era soggetto al monopolio de facto di mr. Zuckerberg, oggi è un mercato maturo, segmentato e continuamente in balia dei trend, in un caleidoscopio di next big thing che si spodestano l’un l’altra e che chiamano a lavorare a una pianificazione degli investimenti sempre più volatile e decentrata.

Un po’ di dati a supporto
Un sito corporate permette di generare n contenuti e di farlo nel giardino di casa propria: questi possono poi essere riproposti su gran parte delle piattaforme social, dati in pasto a Google (quello sì, il giapponese nella giungla dei monopolisti del digitale) e aggiornati a seconda delle meravigliose sorti progressive del web developing. C’è anche chi ha comprovato queste banali riflessioni col favore dei kpis: Findstack, celebre portale specializzato nella comparazione di siti web, calcola per il 2022 500 milioni di blog attivi, 70 milioni di post WordPress pubblicati e 409 milioni di sessioni di navigazione. Nel back-end, professionisti che con la redazione dei contenuti sbarcano il lunario, e alla grande: nello stesso report si sottolinea come nel mercato US uno specialista in digital content marketing possa arrivare a godere di una RAL di 51.000$ annui.
Insomma, per fare maldestramente il verso a un altro adagio piuttosto abusato, social doesen’t kill the blog’s star. Anche nell’era del Web3.
Ci leggiamo presto!
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