Tra iperestetica ed elitizzazione: la pubblicità al tempo dell’AI è fatta di opportunità, sfide e paradossi
Jan Mattassi, direttore creativo esecutivo di Alkemy BX, l’area di Alkemy dedicata a creatività, design e produzione, ci offre il punto di vista su una tecnologia che in Brand Experience ha superato l’hype ed è ben integrata nei processi creativi e di produzione.
Ormai sono due anni che l’AI è esplosa. In che modo questa tecnologia sta cambiando il modo di lavorare dei creativi?
Quando tecnologia e creatività lavorano in sinergia, spesso si verifica un effetto inaspettato, magico. Il mondo della creatività, però, subisce troppo spesso l’ingerenza della misurabilità, dei dati, della necessità di certezze rivendibili di natura tecnologica. Se non è ben schermato da questa distorsione, il reparto creativo rischia di farsi influenzare e finire per pensare non abbastanza in grande. Anche l’AI è una tecnologia e come tale sta entrando nelle nostre vite. Non dobbiamo, però, vivere in funzione di essa. Semmai il contrario. In una delle sue battute sul mondo dell’advertising, George Lois disse che per produrre lavoro di alto livello servono 1% inspiration, 9% perspiration, 90% justification. Saper spiegare e difendere l’idea per venderla è importante, ma vendere non deve diventare la sola variabile, e di certo non a discapito della freschezza -e grandezza- di un’idea. La qualità si raggiunge con l’iterazione (o la perspiration): quel lavorio ossessivo che genera nuovi percorsi inaspettati, aprendo a idee ancora più forti. Va detto, tuttavia, che poco tempo e troppe variabili fanno largo alla speranza che applicando “best practice” crackiamo il brief. Grazie agli strumenti AI per la generazione di immagini è diventato più facile portare a bordo di una strada creativa colleghi e clienti mostrando rapidamente l’idea in modo vivido e realistico. A patto di sapere cosa e come chiedere ai tool, con qualche ritocco il visual “veloce”, per il quale prima servivano ore di lavoro, in un’ora è già in slide ma questo è solo la punta dell’iceberg
Maggiore velocità dall’ideazione alla presentazione, quindi?
C’è di più. L’AI ci sta regalando una semplificazione epocale che da un lato sta spingendo le agenzie di comunicazione ad evolvere in termini di efficienza dei servizi che offrono, dall’altro pone quella che è la sfida vera: governare i nuovi strumenti per aiutare i brand ad essere radicalmente più distintivi quando i più adottano l’AI proprio perché è più facile, veloce ed economica. Una corsia di accelerazione verso “l’iperestetica e una singolarità kitsch della pubblicità”. Perché il tempo è tiranno, ed è anche denaro . E se così fan tutte, l’appiattimento è dietro l’angolo. Come se non ne soffrissimo abbastanza
In un mondo sempre più dominato dalla tecnologia, qual è il nuovo ruolo dell’idea creativa? Come si bilancia l’intuizione umana con le capacità dell’AI?
Quando Sam Altman, il founder di OpenAI, dichiarava che la gen-AI potrà in futuro prendersi carico del 95% del lavoro delle agenzie, non stava esagerando. Consideriamo la grande media delle agenzie del nostro settore. Buona parte del lavoro day-by-day è più di declinazione che di ideazione e crafting: penso, per esempio, a parte dei contenuti di consideration e conversion dei piani editoriali o di specifiche pagine interne dei siti. Con l’AI un minimo qualitativo è incluso e immediato, e non ci aspettiamo niente di meno. I clienti stanno già iniziando ad internalizzare gli strumenti per fare da sé una parte del lavoro di agenzia e a tendere possono gestire a livello tecnico il 95% citato da Altman. Il punto è che un’agenzia creativa, che come tale vuole presentarsi, deve saper fare la differenza per quel 5% che, se trattato bene, in termini di impatto vale più del 100%. E questo, su tutto il funnel
Come si raggiunge, oggi, un livello di qualità superiore se tutto inizia ad andare ancora più di fretta rispetto a come già fa? Come si dice, la fretta passa, la m****a resta.
Siamo a un momento di presa di consapevolezza. Se l’AI aiuta a visualizzare e testare un’idea riducendo i tempi di lavoro, l’equilibrio è nel saper riallocare il tempo risparmiato dagli scontorni ad altre attività a valore aggiunto: ricerca, prove ed errori, ideazione, crafting. Non solo, anche nella formazione e nel recruitment, dimostrando agli stessi clienti che l’eventuale tempo in esubero non equivale ad abbreviare le deadline o ad abbattere il costo di un progetto, ma a dare maggiore spazio alla cura dei dettagli e alle riflessioni che contano
Come avete iniziato ad integrare l’AI in Alkemy BX?
La cultura del buttarsi e dell’imparare sbagliando non ci manca. Ci siamo mossi molto presto per affrontare quello che è un cambiamento paradigmatico e culturale inevitabile e abbiamo scoperto ben presto come sia difficile reperire figure creative esperte in gen-AI. Pensa che le scuole di comunicazione ancora non insegnano strumenti di base come Midjourney, ed è un peccato. Ad ogni modo, in collaborazione con il nostro dipartimento R&D -il AI Evolution Hub— abbiamo lanciato una serie di programmi di formazione interna, sia in ottica di upskilling, sia in quella di creare nuove figure a cavallo fra il reparto creativo, di produzione e di data & analytics
Sono figure nuove?
Sì e no. Inizialmente pensavamo che l’AI fosse una skill da far acquisire perlopiù ai creativi, ma poi abbiamo capito che se Midjourney gli serve per generare un’immagine al volo, è poi l’area di produzione che può dare un apporto molto più utile, sempre su indicazioni dei creativi ma con tool più tecnici come Stable Diffusion addestrati ad hoc e, oggi, anche ma non solo Flux. Sulla piattaforma Stable stiamo facendo tanto e vediamo molte opportunità. Anche in termini di rafforzare la sinergia fra i nostri reparti e i competence center di Alkemy come gruppo
Di che opportunità parli? Puoi dirci di più?
Il grosso dell’uso dell’AI è nell’efficientamento interno, come ho già detto. Che sia creativo, che sia un supporto alla scrittura, alle traduzioni, e alla ricerca, che aiuti ad ottimizzare la produzione. Molti sbocchi sono ancora tutti da capire. Come Alkemy abbiamo diversi cantieri aperti e multidisciplinari sia nello sviluppo di nuovi strumenti ad uso interno e alcuni proof of concept per i clienti che hanno colto la sfida che ci si pone davanti, sia in Italia sia attraverso le nostre sedi all’estero, con le quali c’è un continuo scambio. Abbiamo impiegato la gen-AI, infine, in alcune campagne che non avremmo avuto i tempi per farle con i metodi tradizionali.
Dove vedi opportunità per i clienti e per la industry in generale?
C’è in effetti un argomento emerso sporcandosi le mani con esperimenti fatti insieme a clienti curiosi. È un tema che può aprire a nuovi territori inesplorati, ma che in un mondo ideale sarebbe dovuto venire prima di tutto il resto e al quale ho accennato qualche settimana fa: i dataset dei clienti.
Intendi addestrare le AI con dataset proprietari?
Sì. La gen-AI non è creativa né intelligente. È un artificio. Simula intelligenza e creatività nella misura in cui viene nutrita e orientata in modo corretto. E per nutrirla sulla base di best practice preconfezionate e pubbliche o dataset di evidenze di marketing da manuale non servono capacità particolari. Ciò che è codificato, e disponibile a tutti, è pane per i tool gen-AI. Invece sono poche le aziende che hanno il proprio archivio organizzato in modo che un tool AI possa essere addestrato su di esso. Su questo, insieme ai colleghi degli altri reparti, stiamo già accompagnando i nostri clienti nel trovare modi per uscire dal preconfezionato, evolvendo il concetto di data-driven in direzione di una maggiore ownership dell’ecosistema dei dati di partenza. Forse dovrei tenere il segreto, ma la realtà è che stiamo aiutando i clienti a prepararsi a un’attività che prima o poi sarà per loro naturale internalizzare. All’agenzia resta -e deve restare- il ruolo dell’abilitatore e consulente esterno che offre una ricchezza di visione che un’azienda difficilmente può costruire data la propria naturale verticalità. La creatività, invece, è per definizione trasversale. L’ambizione è individuare nuovi modi di scovare insight interessanti e offrire, in futuro, una personalizzazione di massa dei contenuti, mantenendo coerenza narrativa e distintività. Questo solo la supervisione umana lo può garantire.
L’AI può fare una campagna di awareness?
Per le campagne di alto valore creativo (o di alto funnel), l’AI è solo un altro, meraviglioso strumento che bisogna imparare a controllare affinché aiuti a dare vita a un’idea in modo proprietario e non a discrezione dell’algoritmo. C’è molta aspettativa sulla capacità dell’AI di generare un film premendo un bottone, ma ad ora i migliori esempi di “AI film” sono essenzialmente dei tableau vivant di ricche ed intricate composizioni con dietro molto lavoro concettuale, estetico e tecnico. Sfido chiunque a generarne uno senza avere le competenze. Tra gli esperimenti di spot animati in AI ne segnalo uno di e-Toro e uno di McDonald’s: rispondono all’esigenza immediata e difficilmente costruiscono awareness. Qualche risultato più interessante lo troviamo nell’ambito statico e codificato: profumeria, moda, apparel, food; come il nostro OOH per Haier realizzato in primavera. Poi ci sono le sperimentazioni degli AI artist, contenuti che rispettano l’estetica AI prendendo strade spesso bizzarre, ma originali. Questi artisti sfruttano l’estetica connaturata al mezzo, giocando con essa invece di usare la gen-AI come alternativa economica alle library di immagini. La verità, per noi, forse sta nel mezzo.
Ha paura di perdere il lavoro?
Mi preoccupa più l’ageism rispetto all’AI-ism. L’avvento della generative AI sta innescando un interessante paradosso nel settore creativo. La democratizzazione è evidente: strumenti che una volta richiedevano anni di formazione e pratica sono ora accessibili a chiunque. Va compreso, però, che siamo davanti a una democratizzazione degli strumenti per esprimere la creatività, non davanti alla democratizzazione della creatività. La vera creatività, quella che genera idee originali e impattanti che cambiano il mondo, rimane una competenza rara e preziosa, fatta di tempo dedicato ad essa. Tempo di valore, di studio, di ricerca, di prove ed errori. Questo tempo è ancora un valore assoluto, non aggirabile da strumenti tecnici perché indaga ciò che è eternamente umano ma in relazione a ciò che è lo spirito del tempo. Il paradosso è perciò che se da un lato abbiamo più strumenti in mano, dall’altro le aspettative si alzano e per questo o iniziamo a investire di più e meglio a livello nazionale in creatività o assisteremo a una forma di elitizzazione del lavoro creativo, con meno professionisti molto efficaci ed efficienti, mentre molti dovranno ripensare la loro carriera
Di fronte a questa rivoluzione tecnologica, quale dovrebbe essere la risposta collettiva del settore pubblicitario? Come possono le agenzie collaborare per affrontare le sfide e cogliere le opportunità offerte dall’AI?
Il nostro è un settore molto competitivo, con tanti problemi irrisolti o mai affrontati, e che fa poco, troppo poco squadra. L’avvento dell’AI ci offre un’opportunità unica: ridefinire non solo il nostro modo di lavorare, ma la nostra stessa identità come agenzie. In Alkemy, questa è una domanda che continuiamo a porci da sempre perché siamo sempre sospettosi verso le formule consolidate. Non basta, però, che cambi solo Alkemy, o solo alcune agenzie. Serve un dialogo aperto e una collaborazione sincera che coinvolga l’intero settore. Clienti inclusi. Condividendo sfide e soluzioni per un obiettivo più grande, in cui l’AI è uno strumento che potenzia, non che ostacola. E dove la differenza continuerà a farla la creatività.
Ci leggiamo presto!
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