Tutti lo chiamano storytelling ma Andrea Fontana, preferisce usare il termine “narrazione d’impresa”.
In quanto pioniere di questa tecnica comunicativa in Italia, chi se non lui poteva rispondere a tutte quelle domande che ruotano attorno al magico mondo dello storytelling?
Che cos’è lo storytelling? É l’arte di raccontare storie. Storie che incantano, che emozionano e che ci facciano sentire parte del racconto.
Certamente, ci sono tantissimi tipi di storie: le fiabe, i romanzi, le biografie, i film al cinema sono solo una piccola parte dell’enorme universo narrativo.
Infatti, un racconto può essere creato da chiunque, anche da un’impresa o da un brand. In che modo?
Il pioniere dello storytelling in persona, Andrea Fontana è la persona giusta per raccontare questa storia.
Ha introdotto la narrazione d’impresa in Italia e grazie alla sua intuizione, numerose aziende hanno iniziato a comunicare in un modo innovativo: raccontano sé stesse, interagiscono e si immedesimano nei propri pubblici.
È il direttore del Master in Marketing Utilities & Storytelling Techinques (M.U.S.T.) a Pavia e co-fondatore del GruppoStoryfactory, la prima società italiana nel campo della consulenza narrativa d’impresa. Andrea nel 2015 vince il premio Curcio alla cultura e nel 2019 il Premio nazionale di divulgazione scientifica Giancarlo Dosi e, nel corso della sua carriera, ha scritto numerosi libri che trattano sapientemente e sotto vari aspetti i temi delle scienze della narrazione come la sua recente pubblicazione: “Storytelling d’impresa. La nuova guida definitiva verso lo storymaking” . Nel 2017 è stato speaker del Tedx di Foggia e, sempre nello stesso anno, è stato ospite di Sky TG24 dove ha trattato il tema delle fake news.
Abbiamo chiesto ad Andrea di rispondere a una serie di domande riguardanti la sua carriera, le sue prime intuizioni e le curiosità e quesiti che si celano dietro ai temi riguardanti lo storytelling.
OLTRE CHE SOCIOLOGO DELLA COMUNICAZIONE, CONSULENTE DI IMPRESA E PIONIERE DELLO STORYTELLING IN ITALIA, CHI È ANDREA FONTANA?
Mi piace pensarmi come qualcuno che porta la tuta blu perché, nell’indossare gli abiti dell’operativo, lavoro tutti i giorni con le parole e con le immagini ma, contemporaneamente, come chi indossa anche il camice bianco che rappresenta il tentativo di studiare e analizzare gli eventi della società in cui viviamo che, ad oggi, è altamente mediatizzata e basata sul racconto, sia nella vita che nel business. Oscillo tra il fare e il pensare, tra il sentire e il capire e cerco una mediazione tra le dimensioni del passato e del futuro.
A prescindere da questa metafora, dentro di me coesistono tre anime diverse: l’imprenditore, il manager e l’accademico-curioso.
“YOUR STORY, OUR MISSION” È IL CLAIM DEL GRUPPO STORYFACTORY: IN CHE MODO AIUTATE LE IMPRESE A RACCONTARE LA PROPRIA STORIA?
Uno dei segreti dello storytelling è che la storia importante è quella degli altri e quindi, come primo step, deve essere valorizzata cercando di capire che tipo di impresa si è e come si può evolvere rispetto alle esigenze e alle richieste del mondo. Mappiamo i pubblici da un punto di vista narrativo e risaliamo ai vari insight da un punto di vista biografico: cerchiamo di capire quali sono i grandi temi, le grandi paure che stanno vivendo, le tensioni sociali che stanno attraversando e lo storytelling è l’approccio che consente di dare risposta a tutto questo.
Dopo una prima analisi, emergono le tipologie di pubblici che indicano quali sono i temi su cui l’impresa potrebbe meglio posizionare il proprio racconto e, di conseguenza, il proprio brand.
A questo punto nasce uno storytelling a 360 gradi composto da immagini, suoni e parole – vari contenuti insomma – che dovrà essere trasmesso e adattato ai vari tipi di media, anche in un’ottica di transmedialità.
Questa serie di passaggi appena descritti, discostandosi dall’approccio tradizionale fatto di ricerche, brief e analisi del target, punta ad aiutare le imprese a rendere ancora più bella la propria storia senza dimenticare di renderla coerente e in linea con quella delle proprie audience.

TORNANDO UN PO’ ALLE ORIGINI, C’È STATO QUEL MOMENTO MAGICO IN CUI HAI REALIZZATO CHE LO STORYTELLING ERA IL PERCORSO GIUSTO DA INTRAPRENDERE O È STATO UN PROCESSO GRADUALE?
Una bellissima domanda… Diciamo che ho due risposte. La prima è che l’intuizione originaria dello storytelling avviene quando Andrea è adolescente: leggeva i libri di fantascienza (mio papà mi ha trasmesso la passione per questo genere letterario) di Isaac Asimov, in particolare la sua Trilogia della Fondazione. In quei romanzi il protagonista si chiama Hari Seldon ed è uno scienziato che crea una disciplina, la “psicostoria”, che riesce a leggere le biografie delle persone e anticipa le loro traiettorie di vita: ecco, non chiedermi perché ma per me la psicostoria era vera. Lo storytelling nasce li per me, nel momento in cui comincio a credere che la psicostoria – disciplina fantascientifica – potesse essere vera.
Dopodiché mi laureo in filosofia, faccio un dottorato di ricerca in scienze della formazione, lavoro con le aziende e capisco che quell’intuizione originaria della psicostoria stava accadendo a livello reale e non più solo nei romanzi di fantascienza perché, già alla fine degli anni ’90 del Novecento, uscivano i primi blog in America dove le persone si raccontavano a livello personale e qualche anno dopo arrivano i primi social media. Avevo capito che era arrivato il momento di mettersi seriamente a praticare lo storytelling perché questa dinamica di raccontare sé stessi non avrebbe investito solo i soggetti individuali ma anche i brand e le aziende.
Nel 2006 ho iniziato a insegnare lo storytelling a Pavia, grazie anche al supporto dell’allora Presidente dei corsi di laurea in Comunicazione Giampaolo Azzoni: è in quel momento, in quell’anno che capisco che lo storytelling sarebbe diventato una piattaforma di vita e di business, anche se, a quei tempi, mi guardavano ancora come se fossi un po’ freak. Ciò nonostante, parallelamente all’attività di ricerca, continuavo a svolgere la mia attività di consulenza aziendale e quindi, tutto ciò che studiavo e applicavo scientificamente, lo andavo a testare sulle aziende con cui lavoravo.
Possiamo dire che c’è sempre stata una contaminazione tra teoria e pratica.
SIAMO IN UN MOMENTO IN CUI DIVERSE CAMPAGNE PUBBLICITARIE BASANO LA PROPRIA STRATEGIA COMUNICATIVA SULLO STORYTELLING MENTRE DALL’ALTRO LATO DELLA BARRICATA CI SONO QUELLE PUBBLICITÀ LEGATE ALL’APPROCCIO DATA-DRIVEN. CHI VINCE QUESTA BATTAGLIA?
Per me queste due tecniche pubblicitarie non sono in contraddizione perché per lo storyteller professionista sono assolutamente due processi contigui. La dimensione data-driven è molto importante anche per chi fa storytelling ma, in quanto dati, devono essere interpretati così da poterci portare diversi insight.
Dal punto di vista dello storytelling il dato si trasforma sempre in un vissuto: un numero X o Y, porta un ulteriore contributo a comprendere che cosa un pubblico sta vivendo, di cosa ha bisogno.
Si tratta solo di mettere le mani sulla manopola che va dal numero più freddo e razionale al numero più caldo che incendia le foreste.
Dal punto di vista narrativo, con un numero tu puoi raggelare qualcuno o far battere i cuori: i numeri sono “soggetti di comprensione”.

STORYTELLING E BRAND AWARENESS: QUAL È IL LORO LEGAME?
Lo storytelling è un approccio e, perciò, dovremmo parlare più di scienze della narrazione applicate al marketing, alla comunicazione di impresa, all’apprendimento, allo sviluppo di impresa. A seconda del campo di azione, metti in atto processi di storytelling diversi: per quanto riguarda la brand awareness, qualsiasi buona operazione di narrazione di impresa ti porta alla consapevolezza. Ciò significa che capisci i tuoi pubblici, riesci a sintonizzarti con i loro temi, le loro tensioni e i loro problemi sociali e porti delle risposte. Ma attenzione! A quel punto devi unire la consapevolezza alla responsabilità perché, ormai, hai fatto un’operazione talmente impattante a livello emotivo e culturale su un pubblico che, diventato parte della tua storia, si identifica, ti segue e ti crede: allora diventi responsabile della narrazione che stai portando avanti.Così entriamo in quelli che sono i grandi temi del purpose e del brand activism: questo genere di dinamiche, sempre più basate sulle tecniche narrative, ti portano a diventare una sorta di attivatore o attivista sociale.
NEI TUOI RICORDI ESISTE UNA NARRAZIONE DI IMPRESA CHE TI HA PARTICOLARMENTE… INCANTATO?
(Ride n.d.r.) è come se mi chiedessi: Vuoi più bene al figlio A o al figlio B? Ce ne sono tantissime… Mi hanno incantato un po’ tutte ma c’è stata un’azienda, non posso fare nomi, che ha lavorato sulle ombre. Questa azienda si è chiesta quali fossero le sue ombre e quelle dei suoi pubblici (intese come parte oscura, carica di paure e tensioni) per poi trovare nel proprio branding risposte mirate. È stato un lavoro intenso e profondo. La cosa bella dello storytelling è che, alla fine, ti aiuta a lavorare su te stesso ed è come se fossi continuamente immerso in un processo di consapevolezza e di profonda messa in discussione… qualcosa dentro di te e dentro alle persone con cui stai lavorando, cambia. Da un punto di vista manageriale, incontri individui che hanno la volontà di mettersi in discussione, hanno voglia di fare un viaggio di cambiamento anche perché, altrimenti, non potrebbero attuare una vera narrazione di impresa. Ad esempio, se il key message di un’azienda è parlare attraverso “storie di scoperta” ma il suo pubblico ha bisogno di “storie di cura”, allora è il momento di attuare una trasformazione che implica, alla base, un coraggio aziendale per potersi sintonizzare con il proprio pubblico.
ANDREA, PER FAVORE, SPIEGACI LA NATURA DI QUESTO PARADOSSO: PERCHÉ IL TERMINE “STORYTELLING”, SEBBENE SIA COSÌ DI MODA NEL MONDO PUBBLICITARIO, VIENE UTILIZZATO ANCORA IN MODO IMPROPRIO?
È il destino di ogni moda o trend. Quello di essere cavalcati senza conoscenza approfondita. Questo accade in tutti i settori. L’importante è che il mercato poi sappia distinguere tra chi pronuncia parole alla moda, e a volte a caso, e chi i trend li sa fare e concretizzare davvero.
Per quanto riguarda lo storytelling mi pare di vedere che ci sia una parte di mercato ormai molto consapevole e capace di distinguere la qualità che viene offerta e un’altra parte di mercato che si sta risvegliando sempre di più.
ANDIAMO SUL PRATICO: NELL’ULTIMO ANNO QUALI IMPRESE HANNO MOSTRATO UN BRAND STORYTELING DI SUCCESSO E QUALI, INVECE, AVREBBERO POTUTO FARE MEGLIO?
Ne sto vedendo tantissime che stanno, davvero, facendo salti di paradigma in tutti i settori: bancario, alimentare, energetico, automotive… fino ad arrivare all’abbigliamento. Dal mio punto di vista è in corso questa “svolta narrativa” da parte delle aziende, è come se tutti si fossero accorti improvvisamente che devono raccontare e devono raccontarsi, volenti o nolenti.
Secondo me, il problema vero, oggi, è quello che viene definito storymaking che va oltre lo storytelling: non devi più raccontare e basta ma devi incarnare la tua storia e ci sono aziende che da questo punto di vista, si sono dimostrate esemplari.
Insieme a diversi altri fornitori e partners, con Storyfactory, abbiamo avuto l’onore di lavorare con Flowe, la better being platform del Gruppo Mediolanum capitanata da Ivan Mazzoleni come CEO e Oscar Di Montigny come Presidente. Nell’ultimo anno hanno fatto un lavoro straordinario di storytelling e storymaking perché non solo hanno creato questa piattaforma di servizi online, ma l’hanno riempita di contenuti narrativi secondo dei principi e hanno realizzato persino dei racconti personali archetipali – sintonizzandoli sui propri pubblici. E soprattutto hanno portano avanti, concretamente, le cose che dichiarano come, ad esempio, la sostenibilità ambientale attuata concretamente raccogliendo in spiaggia la plastica o mostrando come i loro servizi contribuiscono ad una effettiva diminuzione di CO2. Poi ci sono quelle aziende che non riescono ad attuare una trasformazione, non perché non possano farlo ma perché l’elemento differenziante è l’atteggiamento. Se un’azienda rimane ancorata all’analisi del target improntata solo su logiche sociodemografiche, all’idea che dei key message fanno la differenza solo perché sono stati estrapolati in modo creativo oppure è convinta che un’analisi data-driven equivalga ad un’operazione di marketing, allora avrà qualche problema in più; proprio perché, oggi, le azioni di marketing e comunicazione diventano anche ricaduta sociale. Perciò, non basta usare la narrazione strategica solo una volta ma è implicito che si tratti di un progresso costante che porta ad organizzarti in questo modo. Più che avere o non avere successo, è importante che un’azienda cambi il proprio mindset in modo costante incorporando nella propria comunicazione l’elemento narrativo.
A tal proposito, mi sembra di vedere che i brand di moda si trovano di fronte a un momento-soglia: decidere se essere semplicemente estetici e aspirazionali oppure diventare narrativi e ispirativi.
Alcuni brand del mondo della moda e del lusso si sono fermati a quei cliché degli anni ’90, fatti solo di estetismo e di coolness ma forse oggi i pubblici hanno bisogno anche di altro. Un’azienda che pubblicizza un profumo, un abito o un gioiello e lo associa solo alla modella o al modello di turno, che valore mi trasmette? Ecco questa penso sia una grande e bella sfida per questo settore.

E ADESSO LA DOMANDA DA UN MILIONE DI DOLLARI: MA COSA RAPPRESENTA QUEL PRISMA CHE AVETE IN MANO NELLE FOTO CHE PRESENTANO IL VOSTRO TEAM SUL SITO DI STORYFACTORY?
Il prisma vuole essere il simbolo del cristallo che raccoglie la luce e la trasferisce dividendola in vari raggi colorati e, quindi, ci piaceva l’idea di usare questo simbolo come una nostra caratteristica: siamo capaci di valorizzare le storie dei nostri clienti, e torniamo quindi al pay-off di Storyfactory “Your Story, Our Mission”, scomponendole e ricomponendole con vari tratti di colore, di luce e di tono in modo tale che siano sempre coerenti con il momento e con la dimensione sociale di cui c’è necessità.
Poi c’è tutta quella simbologia dei cristalli che hanno qualcosa di magico e ci piaceva l’idea di avere un oggetto magico tra le nostre mani che ci ricordasse che tutti gli esseri umani sono un po’ magici, non solo noi di Storyfactory.
Grazie Andrea!