Bruno Bertelli, CCO di Publicis Worldwide, è stato da poco eletto il creativo più premiato al mondo. La consacrazione per una carriera che lo vede a capo dei progetti creativi di brand come Heineken, Diesel e Barilla premiati da oltre 80 Leoni di Cannes dal 2004 a oggi. L’abbiamo raggiunto per un’intervista a tu per tu e senza veli.
Ride subito Bruno in apertura di intervista, con una smorfia che prova inizialmente a contenere la felicità di chi sa emozionarsi ancora nonostante i centinaia di premi già ritirati in carriera. Ci dirà poi che nella classifica stilata da The Drum non avrebbe mai pensato di essere neanche tra i primi dieci quest’anno, ma la realtà è che oggi ci troviamo a chiacchierare a tu per tu con il creativo più premiato al mondo, il Don Draper in carne e ossa che non sta recitando una parte.
Bruno Bertelli non è semplice da descrivere: CEO di Publicis Italia e CCO di Publicis Worldwide con cento agenzie pubblicitarie da supervisionare ogni giorno potrebbe bastare a livello formale, ma vogliamo spingerci oltre.
Il Bruno che abbiamo conosciuto noi è quello più umano e vero, che dimostra come dietro una persona semplice ci sia in realtà un vero e proprio manager della creatività, capace di supervisionare il lavoro creativo del gruppo Publicis in tutto il mondo, ma anche di mettere ancora mano su alcune campagne che portano, oltre alla sua firma, anche il suo sudore. Non parliamo quindi soltanto di un top manager che si rimbocca le maniche solo per ritirare i premi a fine anno, ma di un Leone (concedetecela dai) a cui piace lottare ancora nella giungla della pubblicità, perchè come ci dirà poco dopo il pubblicitario vincente è quello che ha ancora fame nonostante gli anni.
82 Leoni vinti dal 2004 a oggi al Festival della pubblicità di Cannes, 2 Grand Clios e 1 Grand Prix al NYF. Nel 2017 inserito da Adage tra i 50 creativi più influenti al mondo (riconoscimento ottenuto prima soltanto da italiani del calibro di Franca Sozzani, Maurizio Cattelan e Oliviero Toscani).
Abbiamo messo allo specchio Bruno Bertelli, e questo è il suo ritratto, o forse il ritratto della pubblicità moderna.
Buona lettura.
Ciao Bruno, che senso fa essere il creativo italiano più premiato al mondo?
Non me l’aspettavo, avevo anche perso di vista la questione dei premi con tutto quello che è successo. Mi ha fatto molto piacere, è una sensazione di sorpresa. Pensavo di essere tra i primi 20 certo, ma non il primo. È un riconoscimento che ti mette anche un po’ di pressione perché quello a cui pensi subito dopo è “Adesso cosa faccio”? Però al di là di tutto, è una conferma che la qualità paga, e che la vera vittoria è il percorso che ho fatto con tutto il mio team. Questa pandemia secondo me ci ha insegnato che dobbiamo infatti iniziare a goderci il percorso e non solo la vetta.

Sei una persona ormai allenata ad alzare statuette, ci racconti però come è stata la prima volta? Di tutti questi premi, qual è quello che che ti ha soddisfatto di più?
Il primo leone che ho vinto è stato nel 2004 per uno spot che facemmo per Heinken. Inizialmente fu una campagna pensata solo per l’Italia, ma diventò presto un commercial internazionale. “Don’t drink and Drive” era il titolo, con un cane di un cieco che iniziava a bere la birra caduta da un tavolo a fianco e dopo accompagnava il suo padrone chiaramente molto brillo.
In quegli anni tra l’altro vincere un leone a Cannes non era semplice perchè le categorie erano molte meno, ma in quei mesi stava funzionando tutto bene, e avvertivo sensazioni positive. Così è stato alla fine.
Quello che ho preferito invece è Heinken Auditorium del 2010. In quel periodo andava molto di moda fare i prank, gli scherzi con le telecamere nascoste, ma spesso l’effetto che risultava alla fine era una sensazione di finto e costruito. Quello che abbiamo fatto noi in quel caso è stato invertire i ruoli: non era più lo spettatore ad assistere alla candid camera, ma direttamente la platea che abbiamo chiamato a presenziare a quell’evento. Ci sono stati tre mesi di preparazione per chiamare tutte quelle persone, ma è stato un buona la prima e ha funzionato.
Una chicca legata a questa campagna fu la sua realizzazione dal punto di vista economico: c’era appena stata la crisi, e le aziende non avevano alto budget da spendere. Riuscimmo quindi a unire il budget di diverse aree del marketing Heineken, convincendoli che quella potesse essere una campagna trasversale, che sarebbe stata ripresa da diversi media in un colpo solo. Fortunatamente è andata così, e ora spesso vediamo un approccio di questo tipo da parte dei brand.
Qual è stata la prima campagna che hai realizzato? Quella che invece ti ha messo in luce?
La prima campagna interamente realizzata da me fu quella per Little Ceasars, una catena di pizzerie di New York. In quel periodo lavoravo lì per un’agenzia come copywriter junior.
Una campagna che mi ha lanciato invece fu quella per Heineken nel 1999. Il brand veniva da tanti anni con una serie di spot che aveva stancato, e arrivammo noi con una campagna la cui firma era “Sound’s Good”, perché in quel periodo Heineken era sponsor di grandi concerti come l’Heineken Jammin Festival, e allora ideammo questo commercial in cui un ragazzo scappa con l’unica birra rimasta a un concerto. Tutto lo stadio si svuota e i cantanti entrano in scena senza avere più un pubblico di fronte.
Direttore Creativo, nel 2010, CEO Italia nel 2014 e Global CCO nel 2017. Il tuo ruolo è cambiato nel corso degli anni. Non sei più solo il Bruno creativo degli esordi. Come convive nella tua giornata il processo creativo e quello amministrativo di un’azienda presente con uffici in oltre 100 paesi nel mondo?
Vi rispondo in maniera molto diretta e sincera: mai montarsi la testa, mantenere i piedi per terra, e pensare a un lavoro dopo l’altro a testa bassa. Ogni persona viene giudicata dall’ultimo lavoro che fa, e quindi è importante mantenere quella fame di voler dimostrare il proprio valore sul prossimo lavoro. Io ancora oggi mi trovo in alcune campagne a voler fare il copywriter, perché mi stimola poter dare ancora un contributo concreto a una campagna. Quindi sì, il mio ruolo è cambiato, ma neanche così tanto. Cerco sempre di entrare nella prima fase del lavoro e cerco di capire qual è il problema che va risolto e qual è il giusto messaggio da comunicare. Poi spesso rivedo solo il risultato finale che mi portano i miei ragazzi.
La pubblicità come la creatività è secondo me un problema interessante risolto in maniera inaspettata.
Se consenti Bruno, questa ce la rivendiamo (n.d.r)
“I Borgia in 30 anni di conflitti e uccisioni hanno prodotto Leonardo, Michelangelo e il Rinascimento. La Svizzera in 500 anni di pace ha prodotto gli orologi a Cucù.” A Verona quel giorno sul palco di Ted X in qualche modo ci hai detto che la creatività nasce dal conflitto tra due poli opposti. Quali delle tue campagne sono nate da questo presupposto?
Tutte e sempre. Io cerco di trovare una tensione. Se guardate qualsiasi forma di intrattenimento nasce sempre da una tensione rilevante, da qualcosa che ti fa pensare “Questa cosa interessa anche me”. Oggi per come consumiamo i media siamo molto egoriferiti: se questa cosa non mi interessa la skippo. L’esempio più lampante è l’eterna campagna Just Do It di Nike: puoi essere la persona che va a fare sport tutti i giorni o quello che ci va una volta al mese, ma tutti condividiamo la stessa tensione prima di fare sport e questa si riassume nella domanda “Ci vado o non ci vado? Troverò la voglia?”
Non è semplice trovare questa tensione unica in tutti i brand, ma è la parte bella del mio lavoro. Oggi i brand stanno tornando a essere dei punti di riferimento nella vita dei consumatori, e quindi questo processo per chi fa pubblicità e fondamentale.
Con Barilla per esempio abbiamo trovato la tensione in un piatto di pasta: con la recente campagna “A Sign Of Love” abbiamo identificato una difficoltà comune, che è quella di dire alle persone la verità. Questo problema viene risolto da un piatto di pasta, che alla fine mette d’accordo tutti e risolve i problemi con semplicità.
La velocità a cui viaggia il mondo del consumo oggi costringe le agenzie ad avere la “big idea” ogni settimana. Questo ritmo non limita la memorabilità di una campagna?
Oggi il consumo delle pubblicità è molto più veloce, e anche la relazione che noi abbiamo con la memoria sta cambiando totalmente. Per l’esposizione che noi abbiamo ai contenuti, è normale che l’utente si dimentichi in fretta di una pubblicità e che se ne aspetti subito una nuova. L’ambizione di un pubblicitario deve essere quella di raggiungere il maggior numero di persone possibili. Una volta avevamo soltanto i mass media e tutti guardavano le stesse cose. Ora che le opportunità di fruizione di un contenuto sono molte, la soddisfazione per un pubblicitario è quella di riuscire a raggiungere tutte le persone, anche se fosse per un giorno solo.
Se ci fate caso la stessa cosa vale anche per i film: una volta consumavamo i film in modo molto più lento. Ora ne guardiamo in gran quantità, ma non per questo un film ben riuscito non rimane nella testa delle persone.
La fascia d’età 16-24 richiede uno sforzo pubblicitario forse mai visto prima. Soglia d’attenzione bassa, mode volatili e continui cambiamenti di idee e personalità. In questo tornado come si deve inserire la pubblicità moderna?
Partiamo da questo concetto: questo target odia la pubblicità, la skippa. Il pubblicitario deve quindi vestire questo contenuto come se non fosse pubblicità. È necessario inventare nuove forme di contenuti che non siano strutturalmente pubblicità dal primo secondo. Se ci pensate, le nuove piattaforme hanno reso la pubblicità molto più intrusiva: mentre guardi il tuo contenuto online ti entra un adv che non puoi saltare per un tot di secondi. Questo ha cambiato completamente l’appeal che la pubblicità aveva negli anni ottanta-novanta-duemila, e il giovane di oggi la vive come un intruso nella sua giornata.
Il pubblicitario di domani quindi dovrà essere più furbo di prima e nascondersi?
Assolutamente sì, il pubblicitario del futuro sarà quello che dice “Chi io? Non faccio il pubblicitario” (Ride n.d.r)

Oggi il successo di un brand, e quindi della sua strategia pubblicitaria, passa anche dalla sua attenzione a temi (es. quello ambientale o diversità di genere) che intercettano la sensibilità del consumatore. Non trovi però che molti brand giochino forzatamente questa carta solo per vendere di più?
Sì, è un po’ la nuova norma. Più in generale secondo me o racconti qualcosa di interessante e di veramente nuovo oppure rischi il clichè o il greenwashing. Ai miei tempi c’era una regola: fare sempre qualcosa di diverso dagli altri. Negli ultimi tre-quattro anni invece si è puntato spesso esclusivamente al politicamente corretto a tutti i costi.
C’è una campagna pubblicitaria di un “competitor” che avresti voluto firmare in questi anni?
Tantissime, tutte le campagne Nike sicuramente. Ma la mia campagna preferita in assoluto risale a circa 20 anni fa e si chiama Gatorade Replay.
Fernando Machado + Bruno Bertelli, ce lo immaginiamo così il più attuale Woodstock della creatività? Pensi che un giorno potreste lavorare nella stessa squadra?
Mi piacerebbe molto. Lui ha delle competenze e conoscenze della creatività che il 99% dei creativi non hanno. Le poche volte in cui ho lavorato per lui è stato molto stimolante: è una persona che pensa in modo davvero veloce e sa cosa vuole, ma gli piace anche essere sorpreso. Il bello di persone come lui è che ti arricchiscono davvero.
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Abbiamo scelto 5 campagne firmate da Pubblicis degli ultimi anni. Quando ci ricapitava l’occasione di chiedere un parere a chi le ha firmate?
Motivo della scelta: campagna che va in controtendenza rispetto a tutti i prodotti beauty e salute presentati esclusivamente per i loro benefici, senza uno storytelling.
La discovery che sta dietro l’idea di questa campagna è che quando non stiamo bene tendiamo a isolarci. Quando abbiamo dei dolori facciamo lo stesso. La storia ci mostra al contrario come un prodotto come Voltaren possa aiutarci a non perdere l’occasione di provare emozioni e continuare a vivere.
Motivo della scelta: una delle poche campagne pluripremiate in cui più agenzie pubblicitarie di alto spessore hanno collaborato (INGO Stoccolma, David Miami, Publicis).
L’idea della campagna è venuta contemporaneamente a 3 agenzie diverse che erano in gara, e tutti abbiamo presentato più o meno la stessa idea a Machado. Qualche settimana prima era uscita la notizia di una foto di un panino di McDonald’s che dopo sei mesi era ancora perfetto, ed è su quello che è scattata l’idea. Fernando Machado guardando le proposte ha deciso di affidare l’incarico a tutte e tre. Non nascondo che ci sono state un po’ di difficoltà nel gestire il rapporto con le altre agenzie, soprattutto in fase preparatoria, ma alla fine il risultato è quello che conoscete tutti.
Motivo della scelta: irriverenza della campagna
Questa campagna è nata da una contingenza: tra l’uscita del precedente CEO e l’ingresso di quello nuovo c’erano due mesi di buco. Abbiamo allora pensato di pubblicare una ricerca per un CEO temporaneo, volutamente ironico, ma ha avuto un successo pazzesco.
Motivo della scelta: rottura di un tabù
Non era facile sicuramente portare sui grandi schermi questa campagna, ma devo dire che è stato bravissimo il cliente a supportarci in tutte le fasi. Sono ancora legato a questo spot perché in realtà è ancora molto attuale, e in un certo senso abbiamo anticipato i tempi rispetto a idee simili che sono state realizzate dopo. L’abbiamo fatta cercando di cogliere il feeling e il sentore del target in quel momento e ci siamo riusciti.
Motivo della scelta: idea geniale
(Ride n.d.r)
Il cliente voleva dimostrare l’efficacia del prodotto, e quindi ci siamo chiesti come rendere visibile una demo a un pubblico più vasto possibile. L’outdoor è la prima cosa a cui abbiamo pensato perché è un tipo di pubblicità che rimane lì, ferma e impressa in un cartellone pubblicitario. Oltretutto abbiamo scelto Milano perché chi ci vive sa perfettamente che nel periodo estivo le zanzare sono un vero problema fastidioso. È stato anche un tentativo rischioso se vogliamo, perché non eravamo sicuri del risultato al cento per cento, ma alla fine è riuscita.
Concedici una domanda bonus: come sarebbe stato Bruno Bertelli negli anni sessanta a Madison Avenue, spalla a spalla con Don Draper?
Forse sì, mi ci sarei immaginato, anche se negli anni ‘60 sarei voluto essere di più nel mondo del cinema. Se fossi stato un pubblicitario però, avrei sicuramente voluto far parte di quelle due o tre agenzie come DDB che stavano cambiando il mondo dal punto di vista creativo.
Grazie Bruno, ci vediamo a Cannes!