C’è una linea sottile che divide il prendere ispirazione dal violare la proprietà intellettuale. Così sottile che alcune persone non riescono proprio a vederla! Ne abbiamo parlato con due creative, riflettendo anche sui rischi e le opportunità offerte dal digitale e su ciò che si potrebbe e dovrebbe fare per tutelare il lavoro creativo.
Tra le persone che svolgono un lavoro creativo – e quindi, anche tra chi lavora nel mondo della pubblicità – quello della tutela della proprietà intellettuale è un tema molto sentito, di cui nei gruppi di settore si torna a parlare puntualmente ogni volta che si verifica un episodio “più rumoroso” degli altri. E poi basta, però.
Abbiamo contattato due creative del collettivo Hella Network – Il network per la comunicazione inclusiva, Flavia Brevi ed Ella Marciello, per provare ad approfondire un po’ la questione, approfittando di quanto accaduto loro proprio recentemente.
Flavia Brevi è Head of Social Media nell’agenzia di comunicazione Cookies & Partners. Nel 2019 ha fondato Hella Network – Il network per la comunicazione inclusiva, di cui cura anche le creatività. Collabora con le testate Intersezionale e The Social Post.
Ella Marciello è una direttrice creativa, copywriter e communication strategist. Negli anni ha lavorato trasversalmente all’ATL e al BTL, nell’ambito della divulgazione e degli eventi culturali e come docente in diverse realtà formative, tra cui lo IED di Torino. Dal 2019 è portavoce e creativa di Hella Network e da alcuni anni è tra le Unstoppable Women di Startup Italia come una delle mille donne che stanno cambiando il nostro Paese.
Verso fine novembre siete state involontarie protagoniste di un episodio spiacevole, ma tutto sommato finito bene: ci riferiamo ovviamente a quanto accaduto con il Comune di Monterotondo. Ci raccontate brevemente com’è andata?
[Flavia Brevi, d’ora in poi F.B.] Eravamo a Bologna per il nostro intervento al WomenX Impact e non sapevamo che quello stesso giorno [venerdì 19 novembre, n.d.r.] il Comune di Monterotondo stava annunciando una campagna che riprendeva la nostra “Sto solo facendo il mio lavoro – Guida al sessismo nascosto nei posti di lavoro”. Il giorno dopo [sabato 20 novembre, dopo lo speech, n.d.r.] Ginevra Candidi, de “Il lato b del marketing”, mi ha segnalato che aveva visto una campagna “molto simile alla nostra” – che per altro aveva avuto un milione di views organiche, era uscita su Vanity Fair e su Ansa… insomma, non era esattamente una campagna sconosciuta! Quando ho avuto il tempo materiale di verificare la cosa, mi sono resa conto che la campagna era proprio la nostra, nel senso che riprendeva il wording esatto dei nostri soggetti. In primis l’ho fatto notare con un commento sotto il post di annuncio del Comune utilizzando l’account di Hella Network e successivamente ho lanciato un appello nel gruppo Facebook del collettivo, chiedendo a tutte e a tutti di far notare questa cosa, visto che il post stava diventando virale e che autorità e personaggi pubblici [I sentinelli di Milano, Se non ora quando – News e Lorenzo Tosa, per citarne alcuni n.d.r.] stavano elogiando il lavoro dell’Ente – e con “il lavoro” intendo non solo la causa abbracciata, ma anche come questa causa era stata espressa. Il giorno successivo il Comune, di propria iniziativa, ha pubblicato un post nel quale dichiarava che si erano “ispirati alla nostra campagna” e ci invitava a collaborare anche in futuro. Nel frattempo ci avevano chiesto di sentirci direttamente e noi abbiamo accettato l’invito, riuscendo così a raggiungere un accordo: avrebbero ritirato la “loro” campagna, pubblicato un post di scuse e ricondiviso la nostra, l’originale.
[Ella Marciello, d’ora in poi E.M.] Io nel frattempo domenica [21 novembre, n.d.r.] ho pubblicato un call out su Instagram, che è stato molto ripreso, e un post sul mio profilo LinkedIn personale, che poi è diventato virale, in cui mettevo a confronto i soggetti delle due campagne. Le community che frequentiamo sono piuttosto attive, per cui sotto tutte le ricondivisioni c’era sempre qualcuna o qualcuno che sottolineava la reale maternità della campagna, spesso addirittura con il link a quella originale. Alcune pagine – per esempio I sentinelli di Milano prima citati – hanno editato le loro ricondivisioni o segnalato “il fatto” con un nuovo post, ma molte altre no. Certo che l’episodio sembra ancora più surreale se si pensa che la nostra campagna nasceva per denunciare il sessismo sui luoghi di lavoro e il fatto che il lavoro delle donne non viene riconosciuto al pari di quello degli uomini… quindi non solo si è trattato di furto di proprietà intellettuale e di lavoro creativo, ma paradossalmente sono andati proprio contro il concept che quella campagna esprimeva.

Sappiamo perfettamente che quanto accaduto non è un caso “più unico che raro”: il plagio e la violazione della proprietà intellettuale sono reati che colpiscono anche la creatività del mondo dell’advertising. Certo, prendere ispirazione dalle campagne pubblicitarie che vediamo in giro è una cosa piuttosto comune (e accettabile), ma copiare di sana pianta è illegale. Secondo voi è un problema culturale, strutturale o un mix di entrambi?
[E.M.] Io penso sia un mix di entrambe le cose, che per altro si intersecano in molti punti. Dal punto di vista culturale, vale la pena sottolineare come il lavoro creativo in Italia – ma anche oltre confine, purtroppo – spesso non sia percepito come lavoro vero. E questo vale anche per quelle professioni che afferiscono all’ambito culturale, se vogliamo essere precise. Le persone che suonano, fotografano, pensano, scrivono, o come nel caso di cui abbiamo parlato prima creano delle campagne, sono viste come persone che si divertono. E non dimentichiamo quella filosofia secondo cui se ti piace quello che fai è come se non lavorassi neanche un giorno della tua vita: come se il lavoro creativo non implicasse tanti anni di studio e preparazione, tanti errori, sbagli, prove, clienti che perdi… Inoltre è sistemico perché di fatto non abbiamo una regolamentazione stringente sulla proprietà intellettuale. A livello legale, ad esempio, si parla [nell’art. 2575 del Codice Civile e nell’art. 1 della legge sul diritto d’autore, n.d.r.] di opere di ingegno letterario, musicale, tersicoreo – cioè quello coreografico – ma non si parla esplicitamente della creatività nell’ambito della comunicazione o nell’ambito della pubblicità, e non possiamo dimenticare che viviamo in un Paese che dei vuoti normativi si nutre. C’è anche un problema di controllo: sì, ci sono degli organi preposti, ma quante campagne abbiamo visto fin troppo simili tra loro? E non parlo di solo grandi agenzie: mi riferisco anche al freelance o alla freelance che lavora con le PMI o con associazioni varie, che crea prodotti spesso buoni, ma che spesso sono la copia esatta di altre idee già viste in giro. Insomma, il tema è molto complesso: non siamo abituati a percepire il lavoro creativo come lavoro, c’è tanta contaminazione – il che è un bene – ma anche tanto appiattimento, e soprattutto non c’è un vero controllo.
[F.B.] Sono d’accordo con quanto detto da Ella, ma vorrei aggiungere una cosa. Io credo che il mondo pubblicitario si sia chiuso su se stesso e non si interfacci davvero con l’esterno. Questo ha fatto sì che le persone non concepiscano il nostro lavoro come un “vero lavoro” e non gli attribuiscano la giusta considerazione. Ed è colpa anche mia, sia chiaro: ad esempio io non riesco a trasmettere l’importanza di un lavoro come quello del social media manager, che svolgo in prima persona, e che va ben al di là dello stare su Facebook tutto il giorno. Secondo me dobbiamo aprirci di più, esporci di più.
Dal vostro punto di vista il digitale ha “complicato le cose”, a livello di tutela della proprietà intellettuale nel mondo della comunicazione e dell’adv?
[F.B.] Secondo me manca un’educazione digitale. Un esempio: la maggior parte delle persone pensa che, quando pubblica qualcosa sui social, siccome lo fa sul proprio account, stia utilizzando uno spazio privato. E invece sappiamo che non le cose non stanno così. Quelle stesse persone però, se poi hanno bisogno di una foto, un testo, un video, pensano che se quel contenuto è su internet allora è di tutti, utilizzabile da tutti, liberamente. Questo è chiaramente un corto circuito. In ogni caso, più che parlare del digitale, io insisto nel voler parlare di educazione digitale: il problema non è lo strumento, ma come viene utilizzato. E quindi, secondo me, è fondamentale responsabilizzare le persone.

[E.M.] Prima ho detto che viviamo in un Paese che dei vuoti normativi si nutre: secondo me in questo scenario si inserisce il grande problema del digitale. Il digitale ci ha semplificato molto l’esistenza, indubbiamente. Il progresso tecnologico è continuo e inarrestabile e i creativi e le creative devono stare costantemente al passo. Per quanto riguarda la proprietà intellettuale, però, secondo me ci sono due temi che non possono essere trascurati. Il primo è che la mole di oggetti digitali – che possono essere scritti, visivi, multimediali – è sconfinata, e quindi il controllo, come dicevo anche prima, è oggettivamente difficile. Faccio un esempio: se pubblico su Facebook un mio scatto e qualcuno lo prende per utilizzarlo come visual in una propria campagna, io probabilmente non lo saprò mai, a meno che quella campagna non diventi virale o comunque non faccia numeri sufficientemente rilevanti. Questo ci offre un alibi: tutto è permesso, finché nessuno se ne accorge. D’altra parte, quante sentenze ricordate sul furto di proprietà intellettuale avvenuto nel digitale? Io personalmente nemmeno una. Eppure nei gruppi tematici – di marketer, di copy, di designer – questi episodi vengono fuori fin troppo spesso. E anche quando le cause vengono intentate, per altro con un dispendio di energie e soldi non indifferente, il più delle volte quello a cui si arriva è “chi ha compiuto il plagio dovrà eliminare il contenuto plagiato”. Nulla di più. E questo è gravissimo, perché va a consolidare nella mente delle persone il pensiero che tutto sommato il gioco valga la candela, perché al massimo si tratterà di ritirare un contenuto – ma nel frattempo la visibilità, l’engagement, le conversioni ci sono state e nessuno ha pagato il lavoro della persona creativa danneggiata. Finché non c’era il digitale, vedevamo una campagna in affissione o uno spot in tv, potevamo prendere ispirazione, farci influenzare, ma non avevamo sotto mano un archivio di risorse praticamente infinito. E qui arriviamo al secondo tema: a mio parere Internet mangia, digerisce e rigurgita fuori cose che, a ben vedere, alla fine sono sempre le stesse. Io lo vedo soprattutto nelle fasi di brainstorming. Per fare le moodboard, ad esempio, oggi andiamo su Pinterest. Ma una volta le moodboard si facevano con i ritagli di giornale, con i disegni, con i post-it, con i ritagli di stoffa, e in questo modo si aveva la percezione della complessità del progetto che si voleva creare. Oggi invece c’è Pinterest, tutto a portata di clic. Ma se milioni di persone guardano Pinterest, allora milioni di creatività saranno fatte con lo stesso stampino. E questo, oltre a essere dannoso per la persona che ha dato vita alla creatività originale, è dannoso anche per la creatività in generale, che di fatto si ritrova appiattita da questo strumento dalle potenzialità innegabili.
Quanto contano “le dimensioni”, in queste dinamiche? Parliamo ovviamente sia di chi realizza la creatività, sia di chi se ne appropria indebitamente.
[F.B.] Beh, tantissimo. Nessuno oserebbe copiare il claim di McDonald’s o di Coca Cola, perché sa già che vedrebbe arrivare un treno di avvocati agguerriti! E invece, a parti invertite, vorrei citare l’esempio di una mia conoscente che aveva voluto denunciare sui propri profili social il furto di proprietà intellettuale subito da una sua amica, la quale un anno prima aveva pubblicato una poesia poi ripresa integralmente da uno scrittore del circuito di una importante casa editrice italiana. Il punto è che, sotto il post della mia conoscente, le persone commentavano: “Ma figurati se Tizio, che viene pubblicato da quella casa editrice e che ha milioni di fan, ha bisogno di copiare da una sconosciuta!”. Come se l’onestà dipendesse dal numero di follower che uno ha, e come se l’autorevolezza e la fama potessero valere più del dato di fatto – nel caso specifico, parole identiche pubblicate in un post di un anno prima.
[E.M.] Infatti: le dimensioni c’entrano anche in termini di visibilità. McDonald’s, oltre a essere un colosso, è sempre sotto gli occhi di tutti, mentre una campagna come la nostra [“Sto solo facendo il mio lavoro”, n.d.r.], che era molto famosa solo nella nostra bolla, è stata presa senza alcun problema. Di fatto, sui social è molto più facile che le campagne o le creatività plagiate siano di marchi piccoli o di aziende piccole, proprio perché confinate in bolle abbastanza blindate. Aggiungo anche che, se sei una creativa donna, la questione diventa ancora più tesa perché scattano subito le accuse di essere in cerca di visibilità, di volerti associare a un nome più famoso per guadagnarci qualcosa, come è capitato alla persona danneggiata citata da Flavia; a noi invece, per il caso di Monterotondo, è stato detto “Beh dai, la causa è la stessa, ed è una buona causa, quindi non ha tutta questa importanza!”.
Sui social, nei gruppi di settore o comunque sui profili privati di persone che lavorano nel mondo della comunicazione si è molto parlato del “caso Monterotondo”, quindi possiamo dedurre che si tratti di un problema molto sentito. A vostro parere c’è qualcosa che si potrebbe o si dovrebbe fare, per tutelare la creatività nella nostra professione?
[F.B.] La questione è complessa, perché di fatto le regole ci sarebbero già. Il punto è che manca la consapevolezza. Se di fronte all’evidenza di una campagna palesemente copiata c’è chi risponde “Ma le idee sono nell’aria, il concetto non è nuovo”, e confonde il concetto con la sua rappresentazione – nel nostro caso, ad esempio, il wording, il visual – c’è un problema di consapevolezza. Non penso che sia realistico neanche pensare di aumentare il controllo: hai presente quanti milioni di contenuti vengono prodotti quotidianamente? Sarebbe impensabile tenerli sott’occhio tutti. Sono convinta che sia necessario far capire l’importanza del nostro lavoro e cercare di arrivare a un suo riconoscimento.
[E.M.] Sì, torniamo al discorso del problema culturale. Il percepito del lavoro creativo è bassissimo: il tuo prodotto è qualcosa che hai fatto perché non avevi nient’altro di meglio da fare e l’idea non è mai salvaguardata. Ed è su queste convinzioni che si deve intervenire.

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Ci sono azioni che, come singole professioniste o come collettivo Hella Network, pensate di intraprendere per sensibilizzare sul tema della proprietà intellettuale?
[F.B.] Sicuramente come Hella Network ci impegneremo a sviluppare di più l’argomento, per puntare a creare quella maggiore consapevolezza di cui parlavo prima. Ovviamente, se le Associazioni di settore e le realtà più strutturate vorranno unirsi a noi in questa missione, ne saremo ben felici. Perché va benissimo che i collettivi spontanei pongano la questione, ma su un tema così delicato e importante servono un riconoscimento e un supporto ufficiali.
Chiudiamo con un momento di formazione per le nuove leve, dato che La Gazzetta ha tra i propri scopi anche quello di fornire strumenti utili alle creative e ai creativi di domani. Senza arrivare all’atto palese come quello che ci ha fornito lo spunto per affrontare questo argomento, quali sono le azioni che rischiano di valerci un’accusa di plagio? Insomma, qual è il limite che separa l’ispirazione dalla copia, a vostro parere?
[E.M.] Beh, è più facile dire cosa non è opportuno fare. Prendiamo ad esempio la nostra campagna: lì c’è il concept, il wording e l’art direction. Se una persona prende il concept e crea una campagna sul sessismo nei luoghi di lavoro, ovviamente non è plagio: ha preso una tematica e ha creato un proprio messaggio. Se invece varia un po’ il wording o cambia solo l’art direction, beh, dai… lo sa che sta copiando! [ride]
[F.B.] A questo proposito segnalo un sito molto interessante, Joe La Pompe, che raccoglie tanti casi di plagio: secondo me merita un giro approfondito, così è più facile capire meglio cosa è fattibile e cosa no. Comunque, quando qualche lavoro che ci piace è firmato da associazioni, collettivi, realtà che fanno divulgazione senza scopo di lucro come nel caso di Hella Network, la cosa migliore è condividere il lavoro originale, per dare il giusto riconoscimento a chi ha lavorato. Ma questo ovviamente non vale quando sono coinvolti brand e aziende!
Grazie, Flavia ed Ella, per avere accettato di parlare con noi di un argomento così importante per il nostro settore. Rilanciamo volentieri l’appello di Hella Network, affinché tutte le parti in gioco facciano qualcosa di concreto per diffondere una maggiore consapevolezza sul valore del nostro lavoro.