Abbiamo messo allo specchio di Gazzetta Francesco Costa per cercare di isolare, attraverso la sua esperienza e il suo successo, tendenze, deformazioni e prospettive di un giornalismo sempre più alla soglia di una nuova era.
In un contesto in cui i modelli di business del giornalismo tradizionale sono in grande crisi, è più che lecito chiedersi quali direzioni intraprenderà un settore dell’informazione alla ricerca di un futuro profittevole e sostenibile. Dalla rivoluzione digitale in poi la media diet di gran parte degli italiani ha virato verso un paradigma mordi e fuggi, fatto di un numero di informazioni sempre crescente ma di una qualità in costante caduta libera. Al contempo nuovi media, fino a pochi anni fa destinati al solo entertainment, sono maturati al punto da diventare ambienti compatibili anche con attività di indagine giornalistica di alta qualità.
Uno scenario magmatico e ribollente di dinamismo, di cui è complesso cogliere le caratteristiche salienti.
Per capirne di più ci vorrebbe un personaggio come Francesco Costa.
Il vicedirettore del Post guadagna, da tempo, un “capitale di credito” col pubblico italiano e lo fa portando un giornalismo maiuscolo dove meno ce lo si aspetta. Podcast, social media e newsletter, per informare con il taglio peculiare del Post, la testata online di cui è vicedirettore dal 2016.
Prodotti come “Da Costa a Costa”, la newsletter dedicata alla politica e cultura americana, o “Morning”, il podcast che presenta ogni mattina l’attualità attraverso il filtro della narrazione giornalistica, non necessitano certamente di presentazioni.
Nel mese di ottobre la redazione de La Gazzetta del Pubblicitario ha contattato Francesco Costa per proporgli una chiacchierata. Quest’intervista è il frutto del nostro scambio. Buona lettura!
ORMAI SONO RIMASTI PROBABILMENTE IN POCHI A NON SAPERLO, MA NOI TE LO CHIEDIAMO LO STESSO: CHI È FRANCESCO COSTA E PERCHÉ, NEL CORSO DELLA SUA CARRIERA, HA ESPLORATO COSÌ TANTE FORME “NON CONVENZIONALI” DI GIORNALISMO?
Dunque, è sempre difficile presentarsi. Io faccio il giornalista, questo è il mio mestiere. E il giornalismo è l’attività di indagare la realtà e poi provare a divulgare il risultato di quell’indagine, che siano storie e informazioni che riguardano il proprio quartiere, una certa azienda, un paese straniero o un settore della nostra economia. Non ho mai pensato che questo tipo di mestiere fosse legato a uno strumento o a un supporto in particolare. Il giornalismo prende o dovrebbe prendere una certa forma sulla base del contenuto, che dovrebbe scegliere il proprio contenitore ideale. Per questo nel corso della mia carriera, non lunghissima – faccio questo mestiere dal 2008 – mi è capitato di scrivere su giornali online, di farne uno, il Post, e di scrivere su giornali di carta, quotidiani, settimanali o mensili. Ho fatto newsletter, podcast sia più estesi che più radiofonici, come Morning; ho scritto due libri e mi capita di partecipare a eventi in cui parlo dal vivo con il pubblico. Mi piace imparare a usare strumenti molto diversi tra di loro e credo sia il modo migliore per fare questo mestiere nel 2021
FORSE LA NOSTRA DEFORMAZIONE DA PUBBLICITARI HA UN RUOLO IN QUEST’OSSERVAZIONE, MA TROVIAMO CHE FRANCESCO COSTA SIA, OLTRE CHE UN PROFESSIONISTA DELL’INFORMAZIONE, ANCHE UN OTTIMO PROMOTORE DEL PROPRIO LAVORO. TI RISPECCHI IN QUESTA DEFINIZIONE?
Probabilmente un po’ lo sono. Quello che dite sta emergendo da più persone soprattutto alla luce sia della promozione di “Morning” nelle novantanove puntate in cui era free sia del messaggio in cui chiedevo agli abbonati di “Da Costa a Costa” di fare una donazione. Devo dire che mi sorprende abbastanza, perché tendo a essere abbastanza prolisso e a parlare tanto, e nel linguaggio della pubblicità una delle caratteristiche fondamentali dell’efficacia del messaggio è che sia breve e arrivi dritto al punto. Il mio mestiere però consiste anche nel lavorare con le parole. Se scrivo un libro cerco il modo migliore per dire una cosa e quindi una parte di skills si sovrappongono – un pezzo soltanto naturalmente – con chi lavora nel marketing e nella pubblicità sull’attenzione e la sensibilità al modo migliore per dire qualcosa.
D’altra parte, sicuramente intercetto una tendenza recente del settore pubblicitario, cioè quella per cui non sempre il messaggio più breve è quello più efficace. Se prendiamo il “Guardian”, notiamo che sotto ogni articolo viene chiesta una donazione e spesso lo si fa con un testo di quattro paragrafi. Evidentemente questo funziona. Forse ci sono contesti e pubblici per cui dieci righe funzionano meglio di dieci parole.

“MORNING” È UN SUCCESSO STRAORDINARIO, EPPURE I PODCAST NEL MONDO DELL’INFORMAZIONE TRADIZIONALE NON MANCANO. QUAL È IL SUO ELEMENTO DISTINTIVO? FORSE IL TUO MOMENTO DI HYPE È STATA LA SCINTILLA CHE L’HA FATTO ESPLODERE SUBITO?
Secondo me no. L’hype può portare ad ascoltare una o due puntate, non novantanove ogni mattina: se non si fosse trattato di un contenuto interessante, non sarebbe stato possibile. Sicuramente all’inizio sì, perché mi sono costruito per fortuna una piccola community e un piccolo capitale di credito, ma ne ha uno molto più grande il Post. Se il Post lancia un prodotto nuovo e abbastanza ambizioso come un podcast quotidiano fatto dal suo vicedirettore, sicuramente si genera curiosità all’inizio, ma poi credo che debba funzionare il contenuto. È vero che i podcast d’informazione non mancano, però si trovano prodotti da quattro o cinque minuti e anche molto ben fatti ma che faticano a entrare in qualsiasi discorso in modo approfondito, oppure la classica rassegna stampa come quella di Radio 3, e che di minuti ne dura quarantacinque. “Morning” non è una semplice rassegna, c’è un’analisi dei giornali e dei meccanismi della stampa che in Italia praticamente non si fa mai, soprattutto perché è un settore estremamente corporativo e le critiche tra addetti al mestiere non sono molto ben viste.
Abbiamo deciso di metterci molto dalla parte di chi ascolta, raccontando meccanismi e dietro le quinte. Tutto questo non c’era sul mercato ed è il motivo del suo successo, insieme al fatto che il Post lancia “Morning” dopo undici anni in cui il lavoro di analisi interna alla stampa era già cominciato da tempo. È una rassegna che ha una sua personalità particolare e ha permesso a moltissime persone di fruire di contenuti presenti sui giornali cartacei senza doverli comprare, il che è totalmente fuori dalle loro abitudini. Questa secondo me è la sua forza.

LUNEDÌ 18 OTTOBRE LA CENTESIMA PUNTATA DI “MORNING” È ANDATA ONLINE DAL VIVO ED È STATA LA PRIMA DISPONIBILE SOLO PER GLI ABBONATI DEL POST. IL NUMERO DI NUOVE SOTTOSCRIZIONI È STATO TALE CHE IL SITO HA CRASHATO. COME AVETE LAVORATO IN TERMINI DI PIANIFICAZIONE? SOSPETTAVATE LA POSSIBILITÀ DI RAGGIUNGERE QUESTI RISULTATI?
La scelta grossa l’abbiamo fatta prima di iniziare, cercando di determinare se rendere “Morning” disponibile a tutti o solo agli abbonati al Post. Chiaramente ognuna delle due strade ha pro e contro. Se “Morning” fosse ancora aperto a tutti, sarebbe probabilmente ancora primo in classifica: ma è difficile dire quanto di quel pubblico si sarebbe abbonato al Post in ragione di un contenuto disponibile gratis, e siamo abbastanza sicuri che sarebbe stata una fetta minore di quella che si è abbonata con la strategia che abbiamo scelto. Sul piano pubblicitario, inoltre, oggi i podcast non generano moltissimo in termini di ricavi. È difficile convertire con un prodotto free, per quanto qualcosa arrivi. Abbiamo quindi scelto di dare questo contenuto ai nostri abbonati e da lì determinato il resto della strategia. L’ultima decisione presa è stata quella del passaggio ai soli abbonati. Per noi oltretutto era importante capire come performava la nostra app, che è stata sviluppata internamente e non da una grande factory. L’idea era di valutare dopo l’estate: una volta chiariti i tempi di sviluppo, con l’avvicinarsi della novantanovesima puntata abbiamo capito che quello era il momento migliore. Il regalare le prime novantanove puntate e l’offrire nella centesima uno speciale funzionava oltretutto in termini di marketing. Non avevamo comunque obiettivi veri, almeno fino a quando non abbiamo cominciato ad avere dei dati veri. Sapevamo quante persone ascoltavano “Morning”: circa 30.000 all’inizio, arrivati negli ultimi giorni agli 80-90.000. Quanti ne avremmo convertiti? Anche in questo caso non ci sono precedenti ed è difficile stimarlo quando si tratta di un contesto in cui le persone devono mettere mano al portafogli. Un nostro obiettivo ottimistico erano almeno 5.000 abbonamenti. Ne sono stati sottoscritti molti, molti di più.
VENENDO A UNA QUESTIONE PIÙ STRETTAMENTE RELATIVA AL MONDO DELL’INFORMAZIONE, UNA BATTAGLIA DI CUI SPESSO TI FAI PORTAVOCE È QUELLA DEL CONFLITTO D’INTERESSI TRA INSERZIONISTI ED EDITORI. IL CONTESTO ITALIANO HA DELLE SPECIFICITÀ, AD ESEMPIO, RISPETTO AD ALTRI COME QUELLO AMERICANO?
Sì, ci sono specificità e ci mettono in condizione di maggiore difficoltà.
Sono più di una. Innanzitutto le nostre aziende editoriali sono, sul piano industriale, messe tendenzialmente peggio rispetto a quelle di tanti altri paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti. Si fa fatica in Italia a trovare un giornale che sia in grande salute economica. Negli Stati Uniti, testate come il “New York Times” o il “Washington Post” stanno molto bene, mentre in Italia i giornali hanno più l’”acqua alla gola” e non sempre hanno la forza di inimicarsi un gruppo che magari è un loro grande inserzionista. I giornali italiani sono economicamente sempre più dipendenti dalla pubblicità e spesso capita che storie che hanno rilevanza globale, in Italia abbiano pochissima eco. In secondo luogo, c’è una barriera linguistica che rappresenta, nel mondo globale, un limite alla crescita dei prodotti italiani. Il New York Times ha abbonati in ogni parte del mondo, la stampa anglosassone ha un mercato grandissimo a cui attingere, e anche la stampa spagnola e francese. Quella italiana invece non può sfruttare un mercato altrettanto ampio. Come si dice spesso, poi, molti giornali italiani hanno proprietari i cui principali interessi industriali non sono l’editoria. In un capitalismo come quello italiano, ancora molto relazionale, questo a volte rappresenta un ulteriore freno all’indipendenza dei giornali (e scoraggia grandi investimenti sulle aziende editoriali).
FRANCESCO COSTA, DAL 2015, È STATO UNO DEI “RISCOPRITORI” DELLA NEWSLETTER. “DA COSTA A COSTA” NASCE IN QUESTO FORMATO, CHE IN QUEL PERIODO ERA IN UNA FASE DECISAMENTE DECLINANTE. DA DOVE NASCE QUESTA INTUIZIONE?
Come dicevate, in quegli anni negli Stati Uniti lo strumento newsletter stava iniziando quel ritorno impetuoso che ormai è arrivato anche qui.
Non mi sono inventato assolutamente nulla, al più mi sono reso conto di questa tendenza in corso. “Da Costa a Costa” oltretutto nasce per l’esigenza personale, in quel momento forte, di ricominciare a scrivere. Al Post ho sempre avuto mansioni di coordinamento della redazione, quindi ho sempre scritto poco o niente e si vuole fare questo mestiere anche per produrre dei contenuti. In quel caso, volevo tornare a scrivere e imparare qualcosa di nuovo perciò ho deciso, anziché scrivere sul blog che ho da una vita, che il frutto di questo desiderio fosse altro rispetto al lavoro “classico”. Ho quindi intercettato il trend della newsletter, anche perché mi sembrava abbastanza facile. Mi sarebbe, per esempio, piaciuto anche aprire un canale su YouTube ma non so montare i video. Sono stato abbastanza fortunato. In merito a “Da Costa a Costa”, poi, c’è da dire che ho avuto un’altra fortuna. Un mese dopo il primo contenuto, a luglio 2015, Trump si candidò alle presidenziali americane e quella campagna elettorale diventò la più incredibile di sempre. Mi ritrovai al posto giusto nel momento giusto, il pubblico era alla ricerca di informazioni sulla campagna e la newsletter, spinta dal passaparola, funzionò tantissimo. Anche perché raccontavo i fatti col tono di voce mio e del Post, che possono piacere o non piacere, ma sono diversissimi da quello della stampa mainstream.

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TRA LE VARIE FORME DI MONETIZZAZIONE PER UNA TESTATA ONLINE, L’ABBONAMENTO SEMBRA ESSERE LA NUOVA TENDENZA PIÙ REMUNERATIVA E COSTANTE NEL TEMPO. IN UN MONDO DELL’INFORMAZIONE DOVE CON UN PO’ DI RICERCA SI ARRIVA ALLA NOTIZIA IN MODO GRATUITO, QUANTO È DIFFICILE CREARE UNA FAN BASE DI LETTORI COSÌ AFFIATATI DA SOTTOSCRIVERE OGNI MESE UN ABBONAMENTO?
Quello che è veramente difficile è produrre un contenuto per cui valga davvero la pena pagare, capace di aggiungere qualcosa rispetto ai tantissimi contenuti gratuiti a disposizione. A quel punto, convincere le persone a pagare non è la cosa più difficile, anche perché oggi l’idea di pagare un contenuto che fino a qualche anno fa era gratuito è sempre più comune. Fino a dieci anni fa, scaricare film o musica era del tutto normale; oggi io non so più nemmeno come si fa, ed è normale per milioni di persone avere un abbonamento a Netflix o a Spotify. Si tratta di un fenomeno che riguarda non gli “smanettoni”, ma il grande pubblico dai 18 a 70 anni. Il punto non ha più a che vedere con l’essere disposti a pagare, ma con la presenza di contenuti per cui valga la pena di pagare.
IL MONDO DEI BRANDED CONTENT IN AMBITO EDITORIALE È SEMPRE AL LIMITE TRA IL VERO E IL CAMUFFATO. COSA NE PENSI AL RIGUARDO?
Breve premessa: io credo che la pubblicità abbia molto bisogno di innovare i propri formati. Nel mondo del giornalismo sono sorte moltissime innovazioni, si pensi a newsletter, podcast e format che cercano di portare il giornalismo sui social, come Will o Torcha. Pensando alla pubblicità, se si apre un sito web quello che si vede sono i banner, ovvero una sorta di versione digitale dei 6×3 e i video pop-up, che si aprono a tradimento e sono una versione online degli spot. L’unico tentativo che vedo di innovare sono il settore dell’influencer marketing e il branded content. Non credo che sia “il futuro della pubblicità” ma credo che sia una strada promettente, perché permette di raccontare il prodotto in un altro modo. Chiaramente lo è a condizione di dichiarare che si tratta di pubblicità, il che non comporta che il pubblico, sapendolo, non lo leggerà. Se il contenuto ha valore, avrà successo. Io stesso ho lavorato a dei branded podcast e leggerei un libro, poniamo, sulla storia di Coca-Cola pur sapendo che è sponsorizzato. È imperativo e necessario però che chi legge sappia che sta leggendo un contenuto sponsorizzato. Il fatto che questo sia taciuto, ancora prima che scorretto, è assolutamente illegale. Eppure, molte società di raccolta pubblicitaria hanno a listino un contenuto pubblicitario e magari un articolo giornalistico accanto.
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IL POST È L’ESEMPIO DI UN GIORNALISMO FATTO SENZA SENSAZIONALISMI: PERCHÉ L’EDITORIA ITALIANA, A TUO PARERE, NON RIESCE A CAMBIARE QUESTO MODO DI RACCONTARE E INFORMARE?
Il primo motivo per cui abbiamo dato questo taglio al Post è stato il fatto che fossimo in fase di lancio di un progetto nuovo. Eravamo in cinque più uno, il direttore, e non potevamo competere sulla forza muscolare (inviati, pezzi, scoop) con i grandi nomi: ci avremmo perso. L’unica leva per farlo era ricavarci un posto sul mercato facendo le cose in un altro modo, e una di queste era scrivere in un altro modo. La ragione principale per cui abbiamo fatto il Post nel modo in cui lo abbiamo fatto, però, era perché credevamo e crediamo ancora che fosse possibile fare attività giornalistica in un altro modo, con standard di qualità più alti e un rapporto diverso con chi ci legge. Non firmiamo gli articoli, se non in casi eccezionali, perché vogliamo che chi scriva sia completamente al servizio della storia, lontano da qualunque tentazione virtuosistica.
Crediamo che i giornali debbano parlare la lingua del pubblico, in modo semplice. Ci è costato molto lavoro: non abbiamo collaboratori esterni o quasi, perché faremmo fatica a lavorare con professionisti esterni alla redazione che dovrebbero uniformare il loro stile di scrittura, personale e legittimo, al nostro. Internamente riusciamo invece a fare in modo che chi legge, ad esempio la nostra newsletter, pensi che sia scritta sempre dalla stessa persona, quando in realtà è scritta da giornalisti ogni volta diversi. Parliamo e discutiamo moltissimo di ogni scelta. Ma noto che anche nei giornali tradizionali si muove qualcosa e qualcuno comincia a scrivere in un altro modo. C’è qualche movimento su questo fronte.
“COSE SPIEGATE BENE” È LA RIVISTA DI CARTA DEL POST, PUBBLICATA IN COLLABORAZIONE CON IPERBOREA. È UN PRODOTTO CHE NON SI SOVRAPPONE AL POST, ANZI È PIÙ ASSIMILABILE A UN LIBRO. A TUO AVVISO LA CARTA NEL SETTORE DELL’INFORMAZIONE È DESTINATA A CAMBIARE FORMA E PRENDERE PIÙ LA PIEGA DI COSE SPIEGATE BENE E A DIGITALIZZARSI TOTALMENTE SUL RESTO?
Ammazza, che domanda!
SIAMO IN CONCLUSIONE, ERA LA MAZZATA FINALE!
È difficile fare delle previsioni. I giornali americani hanno fatto il botto di abbonamenti con la presidenza di Trump, il Post durante la pandemia.
Succedono cose imprevedibili, nascono nuovi media; detto questo, la radio non è stata soppiantata dalla TV e la TV non è stata soppiantata da Internet. Io non credo che la carta sparirà, credo però che l’attuale struttura sulla quale si reggono i giornali di carta non sia figlia di questo tempo. Non ci saranno più giornali tradizionali con trecento dipendenti o che pubblicano sessanta pagine al giorno, perché non sono più sostenibili economicamente – tant’è che i giornali nati da poco, pensate a “Il Fatto Quotidiano” o a “La Verità”, stanno economicamente in piedi abbastanza bene, facendo addirittura utili. Nascendo adesso, questi hanno costi che sono proporzionati all’attuale economia dei giornali.
La carta avrà un futuro, probabilmente non come principale ingrediente della dieta mediatica delle persone, ma resterà di certo un formato influente e i prodotti cambieranno identità – si pensi per esempio a Internazionale, che sta uscendo con un settimanale cartaceo in forma di quotidiano. I giornali avranno magari meno pagine e saranno realizzati forse da meno persone, ma secondo me la carta continuerà a essere un pezzo del nostro panorama mediatico.

Image credits: vitasumarte.com
SI PUÒ DIRE CHE FRANCESCO COSTA SIA L’ENRICO MENTANA DEL FORMATO DIGITALE?
Identifichiamo Mentana. Stiamo parlando del giornalista che ha cambiato per sempre i telegiornali in Italia?
SÌ.
Io non credo di aver cambiato nulla, nemmeno il modo di fare giornalismo digitale in questo paese. Forse ha cambiato qualcosa il Post e io ho sicuramente contribuito, ma lo ha fatto molto di più Luca Sofri (il direttore, nda) e lo facciamo come redazione. Non prendetela come una risposta evasiva o modesta. Sto cercando – e sono in buona compagnia – di sfruttare al meglio le enormi opportunità che offre il giornalismo digitale. Vorrei fare molto più di quello che faccio rispetto all’utilizzo di formati e linguaggi diversi. La mia strada è quella: essere su più piattaforme e contesti, dal libro di carta ai social, dai giornali alla newsletter. Credo sia anche difficile, oltretutto, che qualcuno possa diventare l’Enrico Mentana del contesto. Con cinque telegiornali in Italia è possibile avere margine di ribaltare il settore. Gli strumenti del digitale sono invece adottati da moltissime persone e quindi credo possa essere molto complesso identificare figure che singolarmente possono essere così di svolta.
Ciao Francesco! E noi, come sempre…
Ci leggiamo presto!