Germano Milite: ecco come sto smascherando i finti guru del web

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29 Gennaio 2021
Tocca mettersi comodi

Sono giovani, spregiudicati e in numero sempre crescente. Promettono riscatto economico, guadagni facili e metodi scientifici per il successo. E sono disposti a insegnare l’arte, dietro lauto compenso, a un numero sempre crescente di discepoli. Sono i guru del digitale, e sono tra noi da tempo. In questa intervista concessa a La Gazzetta del Pubblicitario in esclusiva, Germano Milite, giornalista professionista ed esperto di marketing, ci aiuta a fare chiarezza sul fenomeno. E a fornirci gli strumenti per difendercene.

Vuoi conoscere tutti gli sviluppi del “mondo guru” con un contenuto aggiornato al 2023? Ecco un punto sempre con Germano Milite!

I guru del digitale ai raggi X

L’inchiesta condotta da Le Iene su Mirko Scarcella ha definitivamente puntato le luci della ribalta su un fenomeno che allunga tetre ombre sull’industria del marketing digitale. Il settore brulica di sedicenti esperti, il cui vocabolario è fatto di velleità di innovazione, successo, confidenza nei propri mezzi e mindset vincente. Incastonano questo quadro in cornici esotiche, che evocano il capitalismo di ventura più selvaggio: Dubai, New York, la Silicon Valley. E puntualmente si danno all’infobusiness seriale, offrendo corsi e consulenze con cui promettono ai seguaci guadagni certi. Tuttavia chiunque abbia un minimo di dimestichezza col marketing digitale sa bene ci possono volere anni di studio e di pratica sul campo per sviluppare una competenza tale da farne materia d’insegnamento. Come è possibile che giovani senza alcun trascorso professionale o accademico possano avere alle spalle tali storie di successo? Per illuminare questo sospetto sottobosco, abbiamo contattato Germano Milite. Giornalista professionista ed esperto di digitale, Germano appare come specialista in fatto di guru nell’inchiesta de Le Iene su Scarcella. Inoltre, dedica parte delle sue energie ad attività di debunking sul fenomeno. Questo sforzo è culminato nella creazione del gruppo Facebook Fufflix: uno spazio di divulgazione e discussione riguardo al tema. Contattato a dicembre, ci ha concesso una piacevolissima chiacchierata. Quest’intervista è il frutto del nostro scambio.

Germano Milite nell’intervista a Le Iene

Quando ci siamo approcciati al tuo enorme lavoro ci è venuta spontanea una domanda: ma chi glielo fa fare? Ti anima più il dovere di cronaca del giornalista d’inchiesta o la conoscenza realistica del settore che può avere uno specialista di comunicazione digitale?

Bene, partiamo dicendo che dalla creazione di Fufflix sono diventato un po’ il punto di riferimento della cultura antiguru in Italia…

Ride.

Questa effettivamente è una frase divenuta oramai odiosa e tipicamente da guru. In questo caso, però, anche se mi viene da ridere mentre ci penso, è oggettivamente vero, nel senso che sul serio credo di essere stato il primo in Italia a fare un lavoro di questo tipo e soprattutto a fare nomi e cognomi. Male dei guru, specie in America, si parlava da anni e senza paura di citarli (vedi il celebre youtuber Coffeezilla). Anche in Italia, ma si trattava spesso di sfoghi generici e vaghi. Io però ho cominciato a fare delle inchieste giornalistiche vere e proprie. E questo ha creato un cortocircuito clamoroso, che in parte mi aspettavo e in parte no. Perché non mi sono limitato, come spesso fa certa stampa italiana, a chiedere a un guru le ragioni del suo “straordinario successo”, ma facevo  fact checking e… di conseguenza domande “scomode”.

Poi, avendo dieci anni di esperienza e studio in fatto di cosiddetto “digital marketing”, le domande scomode erano anche pertinenti e competenti. Questo mi ha fornito un vantaggio spiazzante. Forse anche perché sono un po’ anomalo come giornalista: non faccio il marketer, ma sono un conoscitore di certi argomenti, solitamente snobbati dai miei colleghi. Per capirci, sono un po’ come un giornalista finanziario che studia (e magari applica) il trading da anni e indaga su chi vende corsi sulle opzioni binarie.

Chi me lo fa fare? Sicuramente la soddisfazione personale che mi porta l’idea, anche in piccolo, di poter cambiare le cose. Non io Germano Milite da solo, ma il movimento di monitoraggio collettivo nato con Fufflix. Il mio intento non è poi quello di distruggere queste persone. Non voglio vedere Mik Cosentino fallito, o Luca Valori a lavorare in un autogrill. La mia più grande soddisfazione è semmai vedere queste persone spinte a mettersi in regola, erogando servizi di qualità, assistendo il cliente quando necessario, pubblicando disclaimer non ingannevoli, ed elargendo rimborsi quando e se dovuti. E questo sta cominciando ad avvenire, con quello che chiamo #EffettoFufflix

Veniamo a una questione centrale, senza la quale probabilmente nessuna promessa di guadagni facili sarebbe possibile. Perché in Italia il mondo del digital marketing e del digitale in senso lato viene percepito come un El Dorado?

Banalmente per un ritardo di sviluppo rispetto a luogo in cui nasce il settore: l’America. Tutto quello che succede in America in ambito di innovazione e digitale arriva in Italia con al minimo dieci anni di ritardo. Il fenomeno guresco, l’El Dorado sventolata come possibilità per tutti, il guadagno facile online, il “make big money in few times”, nascono proprio in America anni fa. Tant’è che quello che sto facendo pionieristicamente io in Italia oggi, in America lo fanno da anni diversi YouTuber come Coffeezilla, che già dal 2018 fa nomi e cognomi dei guru locali in ottime inchieste, interviste e live video. Lì si sono vaccinati prima. In Italia siamo arretrati rispetto al paese natio di questo fenomeno, che poi in fondo è il paese natio del marketing che conosciamo oggi. Parlerei in merito di “marketing d’importazione”, dunque. L’Italia è ancora una terra per certi aspetti vergine, da questo punto di vista. Ma siamo stati chiamati a perdere molto rapidamente la verginità, a causa del boom dei guru che anche qui è esploso negli ultimi anni. Direi quindi che siamo entrati nella “post-guru era”.

Come nasce un (vero o presunto) guru? Qual è il suo iter di formazione? Si tratta di soggetti che hanno qualche nozione di comunicazione e marketing o spesso partono davvero senza alcuna formazione specifica?

Sì, c’è molta improvvisazione alla base. Chiariamoci, io sono assolutamente favorevole alla disintermediazione culturale e al libero accesso alle informazioni di ogni tipo. La trovo un’opportunità di incalcolabile valore. Comunque il fatto è che oggi chiunque può proclamarsi un’autorità di riferimento: è sufficiente accendere una telecamera e dichiararsi l’esperto italiano numero uno nella tal materia. Poi ci vorrebbe un giornalista che verificasse in cosa consiste la tal materia e che facesse un po’ di fact checking. Fino a prova contraria la maggior parte di questi ragazzi non ha una formazione reale, ma spilucca nozioni qui e lì. Cito Montemagno, perché su questo aspetto ha ragione: sanno ma non hanno compreso. Hanno letto, assimilato qualcosa e… ripetuto. A volte sono anche discreti o addirittura ottimi oratori, ma sono dei ripetitori che non hanno mai consolidato davvero le loro conoscenze, prima di tutto perché non hanno l’esperienza e i risultati che millantano. La genesi è semplice, ed è sempre quella: il “make money“. Quando un giovane si pone questo obiettivo, e lo vuole raggiungere nel più breve tempo possibile e col minimo sforzo, cade nel vortice guresco, sedotto da ville, Lamborghini e modelle. E si pone come obiettivo non il costruire un percorso solido per creare ricchezza, ma il fare soldi subito e a qualunque costo.

Sei un abilissimo descrittore della fenomenologia del guru del marketing digitale. Mi faresti un identikit per i nostri lettori?

Tendenzialmente sono tutti soggetti accomunati da scarse doti nell’apprendimento scolastico. Non andavano bene alle medie e alle superiori, spesso non si sono mai neppure iscritti all’università e ne vanno fieri. Ci sono quindi alla base una frustrazione da complesso d’inferiorità e una battaglia interiore per aver fallito in ambito scolastico, che si uniscono alla voglia di rifarsi proponendosi come un pessimo ex studente diventato (comunque) imprenditore di successo. I più talentuosi, poi, dopo esperienze giovanili un po’ rustiche (il dropshipping di prodotti cinesi per diverso tempo è andato per la maggiore), si strutturano un minimo.
Ma il dramma di questi personaggi risiede nel fatto che, con questo background, è quasi impossibile convertirsi e produrre valore reale e duraturo. Tanti mantengono quell’approccio spregiudicato e incurante delle regole, perché se dovessero seguire delle norme etiche, giuridiche, fiscali e di trasparenza dovrebbero essere molto più bravi di quello che sono. Molti se ne vantano: sbugiardano i puri, facendo i pragmatici e i machiavellici.
Spesso poi i guru accusano i propri competitor di vendere fuffa, distogliendo da sé l’attenzione e denunciando i loro simili, autodescrivendosi come gli unici “puri” e credibili: un posizionamento grezzo, banale ma che per molto tempo ha funzionato. L’altro elemento dell’identikit è la social proof, la riprova sociale. Mettono in mostra recensioni e testimonianze entusiastiche di “studenti”, che molte delle volte vengono pubblicate mezz’ora dopo l’acquisto dei corsi con la promessa di un secondo corso gratuito e/o qualche bonus in cambio. Il guru inoltre si distingue per la sciatteria generale nella scelta dei collaboratori, spesso giovanissimi non professionalizzati e pagati a cottimo per improvvisare un customer care o fare finto “coaching”, ovvero il loro modo per definire un semplice venditore/commerciale. I corsi venduti poi sono spesso incompleti: all’interno di essi appaiono coach e tutor che in realtà sono come detto venditori, pagati per vendere aggiornamenti dell’infoprodotto e consulenze private con il guru. Questi, anziché assistere il corsista, cercano così di vendere servizi aggiuntivi a profusione.
A questo si somma ovviamente l’ostentazione: automobili da corsa, patacche firmate, grattacieli e scenari esotici.

Le bugie, come è proverbiale, hanno le gambe corte. L’impressione è quella che il pubblico, bombardato di messaggi autopromozionali sempre meno verosimili, si stia desensibilizzando. Il successo di Fufflix ne è la prova. Come stanno evolvendo i guru di fronte a questa nuova barriera?

Anzitutto si sta verificando un fenomeno di vaccinazione di massa a un certo tipo di copy e visual da anni sempre uguali a se stessi. L’essere umano si abitua, entro certi limiti, anche a cose ben più orribili di questa. Ovviamente ci siamo abituati anche questo approccio di vendita, quindi è diventato sempre più difficile convertire. I guru italiani inoltre vendono solo in Italia, e il mercato italiano è piccolo. Gli opportunity seeker sono un numero limitato, e dopo averne fregati diecimila non è che ce ne siano molti altri da raggiungere. Per questo si spostano sulle nuove generazioni, per cercare il rinnovo. E poi si dimenano per trovare sempre nuovi presunti “segreti” e “rivelazioni” da vendere. Il pubblico però si è fisiologicamente abituato, ha preso numerose sòle e ne ha parlato. In un primo tempo, a dire il vero il passaparola può essere stato limitato dal fenomeno che io chiamo “la vergogna della vittima”. In caso di fregature online c’è un raggiro che può anche essere grave e ripetuto. E chi ha subito un raggiro spesso non ne parla perché ha vergogna di farlo sapere a famiglia e conoscenti, a cui magari ha chiesto aiuto finanziario per acquistare un corso. Al netto di questi episodi che hanno magari frenato l’emergere del fenomeno, c’è però anche uno stuolo di persone che fa ai guru una pessima pubblicità con il passaparola negativo, per cui vendere è diventato sempre più complesso. E poi, c’è quello che io chiamo “effetto Fufflix”. È aumentata la sensibilità. Molte segnalazioni sul nostro gruppo Facebook vengono da persone che condividono la landing page di un corso e chiedono se valga quello che costa. Il mercato è maturato: non siamo più di fronte a una prateria vergine popolata da bisonti e vacche da mungere in cui edificare casa liberamente. Ci sono dei piani d’edilizia da rispettare.

Il mito dell’azienda scalata e del guadagno automatizzato tramite una social media agency è uno degli elementi della proposizione di valore di tanti infoprodotti di scarsa qualità. C’è qualcosa di vero o è uno specchietto per le allodole?

Quest’affermazione è l’emblema del fatto che chi propone questo mito è solo mosso dalla voglia di cercare opportunity seeker da raggirare. Io lavoro in una social media agency attiva dal 2010, abbiamo decine di dipendenti e posso confermarlo: non si tratta di un business scalabile. La consulenza per definizione non è scalabile, tra l’altro. Il cliente è esigente, la gestione della reputazione online è fondamentale e complicata. Bisogna costruire una rete commerciale, occuparsi del recruitment e avere competenze comprovate e acquisibili solo con anni di esperienza sul campo. Inoltre, strutturare dei modelli scalabili, seri, compliant e legali costa enormi quantità di tempo e denaro. Il modello Silicon Valley, che fonda tutto sulla scalabilità, inizialmente prevede di bruciare capitali enormi. Accelerare una startup costa perché bisogna investire in budget per creare una customer base. Se anche volessimo costruire una social media agency scalabile, posto che sia possibile, non potremmo minimamente farlo con un corso acquistato su Internet da un sedicente esperto, zero esperienza nel settore e duemila euro di investimento iniziale.

E per chiudere con una nota di colore, ti riproponiamo la monolitica domanda di Gaston Zama de Le Iene. Do you know Mirko Scarcella?

È difficile rispondere seriamente a una domanda del genere. Lo farò ridendo e dicendo: “Yes, I know Mirko Scarcella.” Purtroppo e per fortuna. Il lato positivo di questa vicenda è che aver conosciuto Scarcella grazie a Le Iene mi ha dato la conferma che anche il mainstream si sta muovendo in una certa direzione, aumentando la consapevolezza collettiva in maniera esponenziale. Io credo che Scarcella rappresenti tutto ciò che a livello comunicativo non si debba fare quando un’inchiesta giornalistica attacca la tua credibilità professionale. Si è confermato l’antimodello per eccellenza del crisis reputation management! Forse, sarebbe stato un bene ascoltare il consiglio che l’amico Corona gli aveva dato: ammettere almeno una parte delle “colpe” e cercare di ricostruirsi una reputazione, spiazzando completamente l’opinione pubblica con ammissioni inaspettate di responsabile. Invece, al contrario, forse anche consigliato male, ha cercato di negare tutto e screditare “Le Iene” con lo stesso stile della trasmissione, non avendo però esperienza, competenze e mezzi per farlo. Senza rendersi conto dei propri limiti ed errori. Negare l’evidenza aiuta solo a esporti ulteriormente alle critiche stesse, a mio avviso. E direi che Scarcella sia la prova di questo.

Vi siete persi la reazione di Mirko Scarcella all’inchiesta di Gaston Zama? Ve ne proponiamo un estratto qui!

Ci leggiamo presto!

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