Di brand activism, parole su bustine di zucchero e dell’ultimo libro “Scrivere Civile”: allo specchio con Paolo Iabichino

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21 Novembre 2022
Tocca mettersi comodi

Abbiamo incontrato quello che è probabilmente il maggiore esperto italiano di Brand Activism, al timone di Ogilvy Italia come Direttore Creativo e libero professionista poi, fresco laureato honoris causa in “Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni”; colui che ha contribuito a introdurre in Italia il concetto di Brand Purpose, pensato prima di tutto per una vera e propria inversione di tendenza nelle strategie di marketing e che ci insegna oggi a “Scrivere Civile”, titolo del suo ultimo libro in uscita questa settimana e letto in anteprima dalla redazione. In poche parole, Paolo Iabichino, che si presenta allo specchio di Gazzetta!

Ciao Paolo, grazie dell’opportunità di questa chiacchierata insieme. Intanto ti volevamo chiedere di presentare per sommi capi il tuo percorso professionale. Conosciamo il tuo lavoro a Ogilvy Italia, ma come nasce il giovane Paolo Iabichino in ambito pubblicitario?

Grazie a voi! Allora, prima di Ogilvy ho fatto alcune esperienze da freelance, e iniziato a lavorare a 15 anni nei locali, soprattutto nelle pizzerie. Poi quando ho finito il liceo mi sono iscritto alla facoltà di lettere. Mi trovavo in un momento in cui, come tutti gli studenti, ero a corto di soldi e le uniche cose che sapevo fare erano le pizze, scrivere e giocare a biliardo (ride, nda).
Dopo i primi esperimenti ho scoperto che la pubblicità paga, a differenza del giornalismo; quindi, mi sono detto “Io voglio fare quella roba lì”. Sono partito dal basso, ho iniziato a scrivere dove c’era meno “concorrenza”, e sono finito a compilare cataloghi, copy per bustine di zucchero, script “di telemarketing” per telefoni erotici, call to action sui sacchetti dei supermercati che in quei giorni diventavano a pagamento. Alcune di queste attività però mi hanno permesso di farmi notare da un bravissimo Art Director che mi ha introdotto nel mondo del Direct Marketing del settore automotive. Erano i primi anni ‘90, da lì sono poi passato a Draft WW, che allora era l’agenzia di Saatchi&Saatchi che svolgeva prevalentemente attività di Direct Marketing. Nel 2000 sono saltato a bordo di Ogilvy che cercava un direttore creativo per la sua agenzia di marketing one-to-one, OgilvyOne che allora era solo una piccola realtà che da lì a poco diventerà una delle più importanti agenzie nel mondo one-to-one.

Cosa significava esattamente fare Direct Marketing nei primi Duemila?

Nella maggior parte dei casi erano letterine, coupon, offerte personalizzate, Ma nulla in realtà, rispetto a quello che vedremo da lì a poco con l’arrivo del marketing digitale, quello durissimo affidato alle segmentazioni iper-clusterizzate, ai retargeting e a tutte le altre diavolerie che sono arrivate con l’esplosione di algoritmi sempre più invasivi e pervasivi. Questo fatto lo ribadisco anche nel mio ultimo lavoro, Scrivere Civile: il digital marketing della prima ora, dal punto di vista creativo non era altro che lo sviluppo di PDF interattivi, nulla di più. Ma questi sono stati utilissimi per imparare una grande lezione: quando si porta in rete un oggetto analogico, cambia totalmente la logica di fruizione da parte di chi legge. Ad esempio, un catalogo cartaceo si sfoglia dalla prima all’ultima pagina, leggendo da sinistra verso destra, mentre ciò non vale nel mondo digitale. L’utente andrà a leggere i contenuti che gli interessano nella modalità a lui più congeniale. Quindi occorreva fare uno sforzo in più, quello di pensare a come organizzare i contenuti in modo da incontrare gli interessi del consumatore. E questo accadeva al netto di tutto quello che sarebbe successo con la sbornia della pubblicità digitale affidata agli algoritmi.

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Possiamo già considerarla una modalità user-centric?

A quei tempi ci siamo forse illusi che internet sarebbe stato un posto meraviglioso, dove le persone sarebbero state davvero al centro di tutto. Nel 2009 internet fu candidato al Premio Nobel per la pace, tutti noi pensavamo che sarebbe stata una piattaforma straordinaria, supportati dalle rivoluzioni arabe, da un incauto ottimismo e, bisogna dirlo, anche dagli slogan delle Big Tech, su tutti il “Don’t Be Evil” di Google. Di sicuro la rete ha insegnato a noi creativi a fare fondamentalmente un passo indietro e considerare il consumatore ben più di un mero destinatario di un messaggio pubblicitario.

Si può anche dire che ha costretto i tecnici del settore a “scendere dal piedistallo”?

È esattamente quello che voglio dire, l’avvento di Internet al livello mainstream è stata una grande lezione di umiltà. Attenzione, non voglio dire però che i colleghi dei piani dell’advertising facessero un lavoro meno utile: loro continuavano a produrre cose meravigliose. Il problema è che c’era proprio uno scollamento, sia di carriera che di stipendio (ride, nda). Successivamente c’è stata una certa convergenza, ma la cesura tra la grande scuola intellettuale dell’advertising tradizionale e la creatività scapigliata del mondo digitale è ancora presente in moltissime delle nostre agenzie.

Tornando invece a un’epoca più recente, come mai un creativo del tuo calibro, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti del proprio lavoro, all’apice della sua carriera decide di abbandonare forse la migliore agenzia pubblicitaria in Italia?

Il privilegio di lavorare in una realtà come Ogilvy, guidata da Guerino Delfino, è stato davvero provvidenziale per il mio percorso. Lui è stata una figura importante, capace di conciliare il marketing one-to-one con i sistemi digitali nascenti, portando di fatto l’agenzia ad essere quello che era fino a pochissimo tempo fa. Circa quattro anni fa però le logiche sono cambiate, forse troppo velocemente e una serie di condizioni sono risultate per me insopportabili. E non c’entrano nulla il quiet quitting, le grandi dimissioni, il Covid… doveva ancora tutto succedere. Ho lasciato un po’ come Mourinho dopo il Triplete, ma senza avere un piano B ed è stata una scelta dettata dai principi.

Era insopportabile per me vedere dentro le agenzie dello stesso gruppo giovani al terzo stage e con poche centinaia di euro di stipendio lavorare sui clienti più importanti, per aumentare le marginalità. Questo meccanismo, soprattutto se hai scritto Invertising 10 anni prima, non può funzionare. In ogni caso io di fatto non lascio Ogilvy, io lascio WPP, cioè non lascio l’agenzia di comunicazione, ma la holding finanziaria che mi ha fatto incontrare un modo di gestire la creatività in modo per me troppo “commoditizzata”. E con il nuovo avvicendamento manageriale che rinunciava al CEO che mi aveva guidato fino a quel momento, ho preso la decisione di lasciare.

Abbiamo letto in anteprima il tuo nuovo lavoro, “Scrivere Civile”, in uscita il 25 novembre nelle librerie di tutta Italia. Ci racconti in poche parole che cos’è e cosa vuole rappresentare?

Innanzitutto, vi racconto come è nato, ché poi ha la stessa origine di Invertising e che considero un lavoro dello stesso livello, senza nulla togliere alle altre cose che ho scritto. Quest’ultimo libro nasce a margine della mia lectio che ho tenuto in occasione della laurea Ad Honorem che ho ricevuto lo scorso anno in “Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni” dall’Università di Urbino. Dall’Università mi dicono che avrei dovuto preparare una sorta di tesi per il conferimento della laurea. Io inizio a lavorarci e faccio quello che so fare meglio, scrivere. Preparo un lavoro di 23 pagine e lo invio all’università, la quale mi contatta immediatamente, scusandosi per la mancata comunicazione e dicendomi che avevo a disposizione al massimo venti minuti. Di 23 pagine ne potevo raccontare al massimo 5 o 6. Le pagine in eccedenza sono diventate prima un podcast e poi le premesse per la scrittura del libro, in un momento in cui sentivo l’esigenza di fermarmi un attimo e unire i puntini di tutto il lavoro svolto. Ho voluto fare un punto della situazione pensando a chi fa questo mestiere, chi studia o vuole semplicemente avvicinarsi al lavoro della pubblicità, per cercare in qualche modo di riabilitarlo e rivalutarlo, spiegare come poter fare della creatività e della pubblicità qualcosa di cui non vergognarsi, perché comunque il mondo là fuori ha bisogno di fare mercato e la comunicazione d’impresa al momento è ancora necessaria.

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Quindi si può dire che, seguendo un po’ il percorso di “Invertising”, anche “Scrivere Civile” potrebbe o ha l’ambizione di entrare nei percorsi universitari?

Scrivere Civile è stato già adottato da due università e non è ancora uscito. Le prossime presentazioni mi sono state chieste all’interno di Scienze della Comunicazione di Urbino, Perugia e presso Scuole di Comunicazione. Beh, sì, con tutte le scaramanzie del caso, forse si candida ad a diventare un saggio molto letto e studiato, non so se diventerà un libro “manifesto” come è capitato a Invertising, ma ci sono tutte le premesse per destare un po’ di attenzione nel nostro mondo.

“Scrivere Civile”, edito da LUISS University Press, in uscita il 25 novembre 2022.

“Scrivere civile” può portare a una contaminazione per l’attivismo futuro?

Certo, anche perché oggi queste tematiche sono davvero all’ordine del giorno. Ci troviamo in un momento storico in cui nelle università vengono finalmente studiati Stefano Zamagni e Luigino Bruno, abbiamo il movimento delle B-Corp, addirittura il Professor Kotler si scomoda per scrivere Brand Activism e ridefinisce anche lui la disciplina.

I brand non hanno più scuse o motivo per aspettare, anche perché le nuove generazioni di consumatori sceglieranno cosa consumare non solo in base a logiche di prezzo, ma anche e soprattutto in funzione di questi canovacci. Quindi, o impariamo presto a “scrivere civile”, a comportarci e fare mercato in questo modo, oppure siamo semplicemente destinati all’estinzione o, nella migliore delle ipotesi, a essere ignorati.

Nel tuo libro consideri il 2006 come la svolta nel campo della comunicazione per i brand, l’anno in cui il potere decisionale passa nelle mani del consumatore, che inizia a fare le proprie scelte di acquisto anche in base ai criteri della sostenibilità. Quanto secondo te oggi i brand sono attenti a queste tematiche perché parte integrante dei loro principi e quanto invece le utilizzano come mere strategie di marketing?

Credo di avere, su questo argomento, un quadro molto preciso. Questo mondo lo possiamo classificare in tre grandi cluster:

  1. Nativo sostenibile. Qui possiamo inserire i vari Patagonia, Davines, Naturasì e tutte le start-up che si muovono nell’ambito della sostenibilità. Sono brand che hanno la sostenibilità come atto fondativo, nascono di fatto come B-Corp. 
  2. La faccio perché serve, non perché ci credo. In questo gruppo possiamo inserire la maggior parte delle aziende, le quali parlano di sostenibilità non tanto perché ne hanno interiorizzato i principi, ma perché in questo momento è quello che serve per stare sul mercato, lo fa perché sono i consumatori ad andare in quella direzione. Sanno che questa cosa è urgente, sanno che è necessaria e sanno che va fatta.
  3. Coloro che stanno risarcendo il mercato. Si tratta di soggetti che appartengono a industrie molto energivore ed estrattive e sono quelle realtà che in questo sono molto attenti alle proprie dichiarazioni, a come utilizzare le parole. Devo dire che paradossalmente alcuni di questi soggetti sono più sinceri rispetto alla seconda famiglia che abbiamo individuato. Il settore della moda da questo punto di vista sta facendo delle cose straordinarie.

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Rispetto a ciò che hai vissuto nella tua carriera, i temi del Brand Activism erano già emersi o si sono imposti in un secondo momento?

Al netto delle riflessioni che in questo Paese erano già state fatte, con l’economia civile del Professor Genovesi risalente addirittura al 1750, quando ho iniziato a lavorare, questi temi non erano all’ordine del giorno. Diventarono rilevanti quando la tecnologia ci illuse di poter costruire un mondo migliore, come dicevamo prima. Poi è arrivata la grande crisi economica, e di fronte a crisi globali così importanti, non c’è spazio per fare questi discorsi strategici a lunga gittata. Le aziende erano preoccupate di tornare a fare profitto, tranquillizzare i mercati e gli azionisti. 

Il tema diventa mainstream forse proprio con Brand Activism di Kotler e ancor di più dopo la pandemia. Il mondo riconosce di aver varcato veramente ogni limite e chiede a tutti noi, alla politica, alla cultura, al mercato e alla società tutta di fermarsi e rivedere il sistema del profitto a tutti i costi.

Se un brand dovesse partire da zero, cosa dovrebbe fare per “scrivere civile”?

Dovrebbe semplicemente rispondere a una domanda banale: perché faccio quello che faccio? Difficilmente un’impresa nasce esclusivamente per far profitti, nessuno ha quel punto di partenza, ad eccezione di alcune start-up che puntano alle fantomatiche exit.

Tempo fa era tutto più semplice: c’era un consumer insight e il prodotto cercava di risolvere un problema. Oggi il consumer insight lo mettiamo da un lato, la tensione culturale che un brand nascente deve andare a sciogliere nel lato opposto. Le campagne scritte per rispondere a un principio le riconosci subito, hanno un registro completamente diverso, addirittura usano le parole in maniera diversa, si mettono immediatamente in relazione con le persone. Poi magari non fanno lo spot al Super Bowl, non vanno a vincere i Leoni a Cannes, ma non è che andare a Cannes deve diventare il demone esistenziale di chi fa questo mestiere.

Il metaverso sembra essere il futuro. Ci sarà possibilità di “scrivere civile” in questo nuovo ambiente?

C’è un equivoco semantico che è contenuto nella domanda. Il metaverso non esiste, esistono tanti metaversi in potenza per quanti sono le realtà che decideranno di occuparsene. Si tratterà comunque di mondi con grandi potenzialità in termini di inclusione e di rottura degli schemi, oltre che di tutta una serie di barriere che conosciamo in un mondo fatto in atomi, che all’interno di questi ambienti potrebbe non esistere più. Ho un profondo rispetto degli studi e ricerche che si stanno facendo in questo ambito, ma temo moltissimo la narrazione che ne viene fatta e che si sta facendo.

Io sono in ascolto in questo momento, non sono né un tifoso né uno scettico, diciamo che dopo aver candidato Internet Nobel per la Pace preferisco essere più prudente e mi riservo di vedere cosa accadrà.

Ti chiediamo di essere in ultima analisi di essere un po’ visionario. All’inizio della nostra chiacchierata ci hai parlato di quel momento in cui i pubblicitari sono dovuti scendere dal piedistallo. Non è che il metaverso (o i metaversi) potrebbe diventare un nuovo piedistallo?

No, non credo, perché oggi i creativi hanno conosciuto o sono cresciuti nel mondo digital, hanno gli “anticorpi intellettuali” e detestano le Torri d’Avorio. Oggi se c’è una competitività, è sicuramente una competitività sana tra le varie sigle. Ma la generazione creativa cresciuta tra i bit è immune dai cosiddetti piedistalli, perché il digitale non ha mai fatto della conoscenza uno strumento elitario, ma anzi ha diffuso il verbo della condivisione, della partecipazione e della contaminazione. Questa comunità conta migliaia di persone, professionalità e talenti, non una manciata di pubblicitari innamorati delle proprie idee. Certo che tra questi c’è qualcuno che indugia più di altri e spinge un po’ di più l’acceleratore sui temi del personal branding, ma ben venga se diventa il mezzo per portare avanti contenuti di valore, purché vengano riconosciuti come tali dalla propria rete e dal proprio network.

Arrivederci Paolo!

Credits cover: Sergio Oliverio

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