Alcune campagne pubblicitarie si imprimono nella memoria, altre vi si insidiano subdolamente. I media possono essere utilizzati come potente strumento di manipolazione di massa, e siccome a nessuno di noi piace essere manipolato, i modi per condurci a pensarla in un certo modo sono spesso indiretti e laterali. È il caso, ad esempio, della creatività scelta per questa campagna di “Reporter senza frontiere”, che ci consente di dare inizio a una riflessione sull’omissione volontaria di informazioni in pubblicità e nei media.
“Censorship tells the wrong story” la campagna di Reporter senza Frontiere
Vedeteci quel che vi pare, vorremmo dirvi, ma sappiamo che quel “vi pare” non è poi libero come si potrebbe pensare. Incredibile, vero? Osservate quest’immagine di Vladimir Putin che sta guardando un video sul suo telefono.

Esattamente, cosa hanno rappresentato per voi quei pochi pixel? La censura lascia spazio al nostro immaginario, rendendo la nostra interpretazione centrale. Si tratta però di un’arma a doppio taglio, perché mette tutti noi nella condizione di riempire il “vuoto” con ciò che non è realmente nostro, ma che provengono dalle convenzioni sociali che ci hanno cresciuto, e sono quindi soggettive.
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Possiamo affermare che, anche se nessuno ha indicato cosa immaginare sotto quella parte di immagine censurata, forse la mente creativa dietro questa campagna lo ha suggerito.
Generare sensazioni è la via più immediata per coinvolgere il nostro inconscio
“Censorship tells the wrong Story” è il titolo scelto per la campagna, “La censura racconta la storia sbagliata”. Ed è proprio così, anzi, diremmo piuttosto che non racconta la storia giusta, né quella vera.
Ma di certo non sono strategie di oggi, basta riportare alla mente il celebre ready-made nel XX secolo di Duchamp, che gioca unicamente sulle nostre abilità associative, generando in noi delle reazioni.

Le strategie utilizzate dall’artista si ricollegano alle basi delle tecniche di marketing precedentemente analizzate, ovvero padroneggiare i processi mentali inconsapevoli che influiscono sulle nostre decisioni di acquisto o sul nostro coinvolgimento emotivo verso un brand.
Ma l’escamotage della censura può avere alla base anche un obiettivo etico e delicatamente potente, soprattutto per comunicare temi difficili come la malattia o la morte.
La censura che serve a comunicare “ciò che non ci piace vedere”
Nelle piattaforme online, dove tutto è fatto per restare sempre incorrotto dal tempo, ci si interroga spesso sul modo di descrivere la morte e la malattia. Una sfida che è stata accettata in diversi modi, conosciamo tutti ad esempio l’approccio ironico di Taffo.

Vi mostriamo però un’altra via percorribile. Ecco la creatività di questa campagna di sensibilizzazione sul morbo di Alzheimer, patologia tristemente conosciuta per il crescente vuoto che invade la mente dell’individuo colpito.
È inevitabile, guardando l’immagine, immedesimarsi subito nel protagonista che tenta di ricostruire con instabili post-it il viso della persona che lo assiste.
La censura ha qui un doppio scopo: in primo luogo riesce in modo diretto e realista a renderci consapevoli di ciò che non vogliamo vedere e tollerare, riconoscendoci umani con dei limiti. Ecco che la sensibilizzazione viene qui espressa alla massima potenza.
Da un punto di vista contenutistico, invece, questo annuncio è la prova di come la censura possa fungere da “obbiettivo fotografico” portandoci a immedesimarci in uno specifico soggetto.
In questo caso, l’annuncio adotta una visione “esterna”, ritraendo figurativamente lo stato d’animo dell’anziano protagonista.
In conclusione, ci piace ricordare l’importanza di fruire sempre ogni tipo di contenuto in modo critico e consapevole, perché la modalità in cui fruiamo di un messaggio plasma ciò che pensiamo, e viceversa la modalità in cui pensiamo plasma – in fondo – anche il messaggio stesso.