Spinti dalle mutevoli esigenze dei frenetici tempi moderni, sempre più aziende optano per sostanziali debranding per avvicinarsi al cliente. Ma di che cosa si tratta? Vediamolo insieme!
Rebranding… Debranding… Con questi maledetti anglicismi non ci si capisce più nulla! In effetti avete ragione, considerando il fatto che sostituendo una sola lettera, mettendo quindi una “D” al posto di una “R”, si ribalta completamente il significato di una parola, almeno in questo specifico caso.
Il debranding, sul piano tecnico, è un’operazione commerciale strategica volta ad ampliare le possibilità di contatto con i potenziali clienti e costruita a partire da una “decorporatizzazione” del marchio. In maniera più specifica, si tratta della pratica di rimuovere il nome del proprio brand dal logo e da tutti i supporti su cui viene mostrato, come i social media, il sito web della compagnia o le insegne pubblicitarie, ma potremmo comprendere nell’infinito mondo dei debranding anche tutte quelle revisioni grafiche che semplificano o appiattiscono il marchio dell’azienda, per renderlo più “digeribile” al grande pubblico o, banalmente, per ammodernarlo.
Come abbiamo potuto constatare nella nostra lista dei rebranding di febbraio 2021, la stragrande maggioranza dei brand citati stanno seguendo la via del minimalismo, restituendoci loghi appiattiti e snelliti per rispettare i più recenti canoni estetici. Questa operazione di rebranding è a tutti gli effetti un debranding, trend che con tutta probabilità vedremo proseguire anche nei prossimi mesi.
Dopo avervi introdotto l’argomento nell’ultimo numero della nostra newsletter, a cui vi invitiamo a iscrivervi compilando il box in fondo a questo articolo, è giunto il momento di sciogliere qualche dubbio riguardo a questo ancora misterioso argomento o, perché no, introdurre i meno avvezzi di voi a quello che, con tutta probabilità, sarà il fil rouge grafico del 2021.
Debranding: perché?
Il cambio di passo da parte delle aziende per mantenere intatti i livelli di brand awareness è stato tangibile. Da qualche anno a questa parte, in ogni strategia commerciale il consumatore è sempre più protagonista, spesso addirittura a discapito di qualche punto percentuale in termini di ricavi netti.
A partire dal 1981 il mercato americano ha vissuto una radicale rivoluzione delle abitudini di consumo, talmente forte da spingere alcuni dei più grandi gruppi industriali, soprattutto nel settore alimentare, a riconsiderare le proprie strategie di marketing. Ricerche commerciali hanno appurato che di fronte a due prodotti, che economicamente parlando potremmo definire perfetti sostituti, la scelta del consumatore sarebbe tendenzialmente caduta sul prodotto generico, a discapito del prodotto spesso erroneamente definito come “di marca”, al contrario delle solide, seppur erronee, certezze dei colossi dell’epoca. Le motivazioni, però, non si fermano solo alla differenza di prezzo, quanto alla noluntas di sovrappagare un determinato prodotto per contribuire alle spese di pubblicizzazione che i grandi marchi devono sostenere.
L’invenzione del codice a barre non ha fatto altro che accelerare questa transizione. Un sistema di tracciamento dei dati di vendita più efficiente rispetto ai classici report trimestrali, su cui erano basate tutte le strategie commerciali nell’ambito retail, ha evidenziato questa criticità, spingendo i manager dei punti vendita a rivedere le forniture, favorendo de facto il posizionamento sugli scaffali di alcuni tipi di prodotti generici rispetto alla controparte di marca.
Entra così in gioco il debranding, che potremmo interpretare come un passo verso il consumatore per metterlo a proprio agio di fronte ad una scelta di acquisto responsabile. Molti brand vengono infatti percepiti come too big, come li definirebbero i colleghi d’oltreoceano, talmente grandi da incutere una sorta di timore reverenziale nel consumatore, disincentivando implicitamente l’acquisto di determinati prodotti. Potremmo quindi asserire che la pratica del debranding pone il marchio in questione su di un piano più umano e di più facile approccio da parte del potenziale cliente.
Attenzione però all’effetto boomerang: se il brand in questione è troppo corporate o, ancor peggio, poco trasparente in termini di strategie commerciali, il rischio è quello di vedere la propria brand identity crollare miserabilmente nei meandri dei mercati concorrenziali. Un altro fattore da prendere in considerazione è la “maturità” del marchio, concetto che introduce una sorta di temporalità da non sottovalutare se si sta optando per una strategia di debranding.
Debranding: quando?
Qual è il momento giusto per un debranding? La verità è che non esiste una risposta assoluta a questo annoso quesito e neppure un modello matematico in grado di restituirci una fedele stima della realtà commerciale.
Il fattore principale da calcolare prima di imbarcarsi in un audace debranding è, come introdotto nel paragrafo precedente, la “maturità” del brand. Un marchio è da considerarsi maturo quando rispecchia tre criteri chiave:
- Restituisce al consumatore un valore che va oltre ai semplici prodotti
- Possiede stabili livelli di conoscibilità, con previsioni di crescita per il futuro
- Possiede valori ben radicati nella mente dei consumatori, seppur conservando una vision progressista e in continua evoluzione
Non rispettare anche solo una di queste caratteristiche fondamentali potrebbe scatenare delle incontrollabili reazioni avverse in caso di debranding. La posta in palio è alta e un’azione fallimentare rischierebbe di far crollare sia l’identità del brand che il suo valore, una vera e propria catastrofe per qualunque azienda.
L’analisi della maturità di un brand, però, non deve e non può fermarsi soltanto alla sfera temporale, ma deve necessariamente comprendere anche quella percettiva. Conoscere perfettamente il grado di affinità e fiducia che i consumatori ripongono su di un determinato marchio favorisce una posizione strategica avanzata, che permette di tentare una comunicazione più audace o, al contrario, più umile e consumer-friendly.
Debranding: casi di successo
C’è chi sarebbe pronto a giurare che il primo debranding della storia sia stato quello di Nike nel 1995. I creativi dell’azienda americana, nell’ambito di una grande operazione di rinnovamento, decisero di eliminare il logotipo dal proprio marchio, lasciando quindi solamente l’iconico “Swoosh”. Questo è il perfetto esempio di un brand ormai maturo che decide di avventurarsi in un audace debranding, ottenendo risultati straordinari.
Da lì in poi silenzio totale, almeno fino al 2011, quando Starbucks presentò il nuovo logo: via il logotipo per lasciare più spazio alla Sirena, il simbolo del brand, e un aspetto generalmente più bidimensionale e snello. L’obiettivo di questo debranding era quello di restituire al cliente un’immagine più familiare, come se si stesse varcando la soglia della caffetteria dietro casa, e non quindi di uno fra i tanti punti vendita di un colosso internazionale. Obiettivo centrato.
Nemmeno il mondo della moda è immune ai debranding. Questo trend, ormai dilagante, è stato avviato dai creativi di Yves Saint Laurent nel 2012, quando decisero di snellire notevolmente il marchio dell’azienda riducendolo ad una scritta maiuscola. Audace, sì, ma anche notevolmente influente, tanto che parecchi competitor hanno deciso di seguire la stessa strada, come la francese Balmain e la britannica Burberry.
Per oggi ci fermiamo qui. Il fenomeno dei debranding, pur ricoprendo una posizione fondamentale nelle strategie commerciali moderne, risulta ancora perlopiù un argomento misterioso e inesplorato. Insomma, abbiamo appena scalfito la punta dell’iceberg, come si suol dire. Restate connessi, presto torneremo sull’argomento per raccontarvi in tutti i dettagli alcuni casi di successo e alcuni clamorosi flop.
Ci leggiamo presto!
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