#Fetrah, quando è l’omofobia a fare il marketing

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5 Agosto 2022
Il tempo di un caffè

L’hashtag #fetrah, lanciato in Egitto, è il primo movimento omofobo a comunicare come un brand: ha pagine social, communities e ambassadors.

Solo due colori e un minimalismo schietto, assieme a un hashtag diventato virale in poco più di dieci giorni: #fetrah. In arabo, si può tradurre più o meno come “istinto naturale”, “primitivo”. Lanciato in Egitto, questo istinto primitivo ha avuto ampia diffusione fra i paesi del Nord Africa e Medio Oriente.

D’accordo, ma come mai dovremmo preoccuparci di un istinto naturale? Perché il #fetrah è l’istinto che accetta solo i due colori del binarismo, il blu e il rosa, contro tutti gli altri della bandiera LGBTQ+. Ma per quanto primitivo, è riuscito a diventare un trending hashtag sfruttando un’ottima strategia di comunicazione: quella dei brand.

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L’immagine di copertina del profilo Twitter di Fetrah

UNA BANDIERA MA È UNA CAMPAGNA!

#Fetrah funziona davvero come una campagna di un brand: c’è un logo assolutamente al passo coi tempi (minimalista, letteralmente due colori e molto esplicito), un pay-off (#fetrah) e un altissimo engagement: solo in Marocco, a luglio è stato il primo trending hashtag per qualche giorno, generando più di 13.000 tweet. Proprio Twitter è stato il campo di sviluppo preferito dove il movimento ha spopolato di più (anche perché Meta lo ha bloccato poco dopo la sua apertura).

https://twitter.com/fetrah_org/status/1552043243549990927

Sopravvive una folta community su Telegram, con oltre 15.000 iscritti che inviano meme anti-LGBTQ+ e interagiscono coi post. Gli admin fanno engagement, aggiornano i loro loyals sulla crescita del trend e ogni tanto spammano pure degli stickers.

C’è pure un sito con una homepage molto semplice: i due colori su cui campeggia lo slogan “non più LGBTQ+”, tradotto in varie lingue. Infine i link alle varie pagine, o per lo meno quello non ancora censurate.

E per chiudere il cerchio, c’è pure un timing ben studiato: #fetrah è stato lanciato a giugno, cioè il mese del Pride.

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Homepage di fetrah.org

IL MARKETING DELL’OMOFOBIA

A questo punto, non stupirà sapere che #fetrah è stato lanciato da tre ragazzi egiziani esperti di marketing (di cui è noto solo Abdullah Abbas, che di lavoro fa proprio il brand strategist) che hanno strutturato quello che poteva rimanere un semplice hashtag secondo gli accorgimenti e le strategie di una vera e propria campagna pubblicitaria.

Il fenomeno #fetrah è assolutamente unico nel suo genere: si comporta come un brand, ma non è un brand. Se mai è un sentimento (evidentemente diffuso) di omofobia che è stato veicolato come se fosse un brand. Probabilmente è la prima volta che un trend omofobo si organizza in una comunicazione così strutturata. Certo, ci sono sempre stati post alt-right e meme anti-gay, community discriminatorie e vari gruppi privati, ma non un movimento così organizzato.

Insomma, sarà anche un istinto primitivo, ma non lo è affatto in quanto a marketing. In #fetrah c’è tutto quello che un brand dovrebbe avere, ma il suo core business non sono servizi o prodotti di qualsiasi tipo: c’è semplicemente un sentimento, pericolosamente omofobico quanto ben comunicato.

COME UN BRAND MA NON LO È

Di brand che sono scivolati negli hate speech, commettendo gaffe grossolane e rovinando la propria reputation, ne conosciamo tanti. La famiglia tradizionale di Barilla, ad esempio, per parlare di storia recente. Così come l’omofobia sui social, che non è mai stata una novità – basta seguire gli account di alcuni nostri parlamentari.

Però in #fetrah c’è qualcosa di nuovo: è il primo movimento omofobo che riesce a strutturarsi come un brand. Una sua propria community, un ampio re-sharing dei post (fra l’altro la bandiera rosa/blu viene usata anche come font per vari meme) e un hashtag virale. E poi, a ben vedere, c’è anche un brand ambassador d’eccezione.

Un recente discorso di Putin sulle nozze gay, già accostato a #fetrah.

C’è una pecca in questa comunicazione? Sì, e per fortuna. #Fetrah rimane un fenomeno assolutamente localizzato, il che segna il suo limite: per quanto abbia spopolato, non si è esteso oltre i Paesi della fascia orientale. Infatti è troppo vincolato a (una interpretazione del) culto islamico per diventare veramente world-wide – sebbene Abdullah Abbas abbia smentito che si tratti di un movimento religioso.

Sarà anche una pecca sul lato del marketing, ma in questo caso è un bene per contenerne la diffusione. Però #fetrah ha aperto qualcosa di nuovo sul fronte anti-LGBTQ+, perché in Egitto si è generato un competitor al marketing della gay community.

Per ora non c’è nulla di preoccupante (del resto ci sono enormi problemi di censura), ma #fetrah ha portato una novità: per la prima volta, l’omofobia ha provato il marketing e ha aperto una breccia empatica.

Ci leggiamo presto!

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