L’hashtag #fetrah, lanciato in Egitto, è il primo movimento omofobo a comunicare come un brand: ha pagine social, communities e ambassadors.
Solo due colori e un minimalismo schietto, assieme a un hashtag diventato virale in poco più di dieci giorni: #fetrah. In arabo, si può tradurre più o meno come “istinto naturale”, “primitivo”. Lanciato in Egitto, questo istinto primitivo ha avuto ampia diffusione fra i paesi del Nord Africa e Medio Oriente.
D’accordo, ma come mai dovremmo preoccuparci di un istinto naturale? Perché il #fetrah è l’istinto che accetta solo i due colori del binarismo, il blu e il rosa, contro tutti gli altri della bandiera LGBTQ+. Ma per quanto primitivo, è riuscito a diventare un trending hashtag sfruttando un’ottima strategia di comunicazione: quella dei brand.

UNA BANDIERA MA È UNA CAMPAGNA!
#Fetrah funziona davvero come una campagna di un brand: c’è un logo assolutamente al passo coi tempi (minimalista, letteralmente due colori e molto esplicito), un pay-off (#fetrah) e un altissimo engagement: solo in Marocco, a luglio è stato il primo trending hashtag per qualche giorno, generando più di 13.000 tweet. Proprio Twitter è stato il campo di sviluppo preferito dove il movimento ha spopolato di più (anche perché Meta lo ha bloccato poco dopo la sua apertura).
Sopravvive una folta community su Telegram, con oltre 15.000 iscritti che inviano meme anti-LGBTQ+ e interagiscono coi post. Gli admin fanno engagement, aggiornano i loro loyals sulla crescita del trend e ogni tanto spammano pure degli stickers.
C’è pure un sito con una homepage molto semplice: i due colori su cui campeggia lo slogan “non più LGBTQ+”, tradotto in varie lingue. Infine i link alle varie pagine, o per lo meno quello non ancora censurate.
E per chiudere il cerchio, c’è pure un timing ben studiato: #fetrah è stato lanciato a giugno, cioè il mese del Pride.

IL MARKETING DELL’OMOFOBIA
A questo punto, non stupirà sapere che #fetrah è stato lanciato da tre ragazzi egiziani esperti di marketing (di cui è noto solo Abdullah Abbas, che di lavoro fa proprio il brand strategist) che hanno strutturato quello che poteva rimanere un semplice hashtag secondo gli accorgimenti e le strategie di una vera e propria campagna pubblicitaria.
Il fenomeno #fetrah è assolutamente unico nel suo genere: si comporta come un brand, ma non è un brand. Se mai è un sentimento (evidentemente diffuso) di omofobia che è stato veicolato come se fosse un brand. Probabilmente è la prima volta che un trend omofobo si organizza in una comunicazione così strutturata. Certo, ci sono sempre stati post alt-right e meme anti-gay, community discriminatorie e vari gruppi privati, ma non un movimento così organizzato.
Insomma, sarà anche un istinto primitivo, ma non lo è affatto in quanto a marketing. In #fetrah c’è tutto quello che un brand dovrebbe avere, ma il suo core business non sono servizi o prodotti di qualsiasi tipo: c’è semplicemente un sentimento, pericolosamente omofobico quanto ben comunicato.
COME UN BRAND MA NON LO È
Di brand che sono scivolati negli hate speech, commettendo gaffe grossolane e rovinando la propria reputation, ne conosciamo tanti. La famiglia tradizionale di Barilla, ad esempio, per parlare di storia recente. Così come l’omofobia sui social, che non è mai stata una novità – basta seguire gli account di alcuni nostri parlamentari.
Però in #fetrah c’è qualcosa di nuovo: è il primo movimento omofobo che riesce a strutturarsi come un brand. Una sua propria community, un ampio re-sharing dei post (fra l’altro la bandiera rosa/blu viene usata anche come font per vari meme) e un hashtag virale. E poi, a ben vedere, c’è anche un brand ambassador d’eccezione.
C’è una pecca in questa comunicazione? Sì, e per fortuna. #Fetrah rimane un fenomeno assolutamente localizzato, il che segna il suo limite: per quanto abbia spopolato, non si è esteso oltre i Paesi della fascia orientale. Infatti è troppo vincolato a (una interpretazione del) culto islamico per diventare veramente world-wide – sebbene Abdullah Abbas abbia smentito che si tratti di un movimento religioso.
Sarà anche una pecca sul lato del marketing, ma in questo caso è un bene per contenerne la diffusione. Però #fetrah ha aperto qualcosa di nuovo sul fronte anti-LGBTQ+, perché in Egitto si è generato un competitor al marketing della gay community.
Per ora non c’è nulla di preoccupante (del resto ci sono enormi problemi di censura), ma #fetrah ha portato una novità: per la prima volta, l’omofobia ha provato il marketing e ha aperto una breccia empatica.
Ci leggiamo presto!