I manifesti dell’associazione “Pro Vita e Famiglia” hanno creato non poche polemiche e sono stati rimossi in diverse città. A Bologna, però, il dibattito per la rimozione è stato più acceso che altrove.
“Basta confondere l’identità sessuale dei bambini. #stopgender” si legge nei cartelloni pubblicitari affissi in diverse città di Italia, invitando a firmare una petizione a supporto. L’intervento di Matteo Lepore, sindaco di Bologna, è tempestivo e, con un post su Facebook, chiede un intervento legale per la rimozioni degli stessi e un ripensamento delle regole attuali sulle affissioni pubbliche: “È discriminante e strumentalizza i bambini per portare avanti idee sciocche come la presunta teoria gender”.
L’opinione del primo cittadino è assolutamente condivisa e supportata non solo dai bolognesi, ma anche dalla vicesindaca Emily Clancy, che è stata una delle prime a notare e denunciare i manifesti, definendoli “lesivi della dignità, delle libertà politiche e della libera espressione di genere poiché vogliono proporre stereotipi inaccettabili e idee discriminatorie”.
Libertà di espressione o discriminazione?
In seguito alla richiesta di rimozione, la prevedibile reazione di Pro Vita è arrivata con le parole di un membro dell’associazione, Francesco Perboni che ha giudicato l’avvenimento come una limitazione della liberà d’espressione: “Le associazioni Lgbt possono entrare nelle scuole con progetti su bullismo o discriminazione. Cose sacrosante, se non insegnasse anche la teoria di genere, cioè che il genere è scollegato dal sesso biologico”.
Secondo Perboni, questo genere di insegnamento nelle strutture scolastiche limiterebbe la libertà educativa dei genitori, compromettendo il principio del consenso informato che viene, anzi, completamente surclassato.
Secondo il sindaco del capoluogo emiliano, invece, “mostrare un bambino con un fiocchetto rosa, dicendo implicitamente che così non sarebbe una persona a posto, significa discriminare” e non è un messaggio accettabile in un paese che cerca di superare a fatica stereotipi e credenze che non dovrebbero più appartenere al nostro tempo. In questo senso, parlare di libertà di espressione sembra utopico, considerando il lungo passo che corre tra un diritto irrinunciabile e messaggi innegabilmente discriminatori.