Il Super Bowl delle Dot-Com: la storia degli startupper terribili che invasero il Big Game

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11 Febbraio 2022
Tocca mettersi comodi

La notte del 30 gennaio del 2000, un gruppo di startupper milionari (ma totalmente privi di esperienza pubblicitaria) mandò in onda una serie di spot di fattura piuttosto scadente negli intermezzi del Super Bowl. Ecco come ci riuscirono, come andò a finire e perché questa storia può essere attuale anche in vista del Big Game di quest’anno.

L’invasione dei Barbari

30 gennaio 2000, Stati Uniti d’America.

Il Capodanno più atteso del millennio è ancora un ricordo caldo di poche settimane, come è ancora caldo il timore per lo sventato Millennium Bug. Il presidente Bill Clinton, in carica dal 1994, si appresta a terminare il secondo mandato elettorale: le elezioni primarie già in corso si stanno occupando di trovare un candidato alla successione.

Ma soprattutto, alla Georgia Dome di Atlanta, va in scena la finale dell’NFL, che oppone Tennessee Titans e St. Louis Rams. È la notte del Super Bowl, e milioni di americani si riuniscono davanti ai teleschermi, in cerca di emozioni forti ed entertainment di livello.

Intrattenimento che passa tanto per i contrasti e le fughe del green di gioco quanto, come consuetudine vuole, per gli spot in onda nelle pause pubblicitarie.

Eppure ci vuole ben poco per capire che quella notte sta accadendo qualcosa di profondamente inusuale e inatteso. Tra un hot dog, una chiacchiera in famiglia e una Bud fresca, l’inerzia del telespettatore americano medio viene turbata da annunci come questo.

Non propriamente la produzione pubblicitaria che ci aspetteremmo in quegli slot, in quella notte dove una manciata di secondi può costare a un brand l’intero budget annuale per la comunicazione. E non si tratta di un caso isolato: tra un quarter e l’altro della partita vanno in scena commercial dal sapore sempre più dilettantesco e dall’idea creativa di fondo spesso discutibile.

Un tratto comune però balza all’occhio: gli inserzionisti sono misconosciute imprese attive nel digitale. Servizi di food delivery, di trading, d’informazione, di e-commerce: insomma, il trait d’union del tutto sembra essere il digitale, frontiera a inizio anni Zero ancora davvero pionieristica. Com’è possibile, si saranno chiesti gli sbigottiti telespettatori, che queste modeste avventure d’impresa possano aver calcato il gala pubblicitario dell’anno con tanta sciatta disinvoltura? Come se lo saranno potuti permettere?


Benvenuti nell’esilarante e dimenticata vicenda passata alla storia come “Il Super Bowl delle Dot-Com”, quest’anno tornata attuale per via dell’incursione delle criptovalute nella LVI edizione del Big Game. Una vicenda dotata di una sua intrinseca morale da fiaba, di cui qualunque appassionato di business e comunicazione d’impresa dovrebbe conoscere gli estremi. Ripercorriamola passo per passo insieme.

La febbre del Bit

Il quinquennio tra il 1995 e il 2000 vide internet consolidarsi, oltre che come realtà di consumo planetaria, anche come invitante territorio di speculazione. Il mercato del digitale, all’epoca, aveva però sembianze radicalmente diverse da quelle odierne. Dimenticatevi le Big Tech, l’oligopolio dei pochi grandi e la torta più o meno rigidamente suddivisa tra Menlo Park, Mountain View e Seattle.
Nell’effervescenza straordinaria dell’epoca, qualunque buona idea sembrava avere il potenziale di scalare, raggiungendo volumi di affari multimilardari. Insomma, parliamo del classico mercato senza leader assoluti e standard condivisi, che è quindi anche un humus fertile per i grandi investimenti.

È, non a caso, l’epoca aurea delle DotCom: società che cercavano i primi rudimentali modelli di business digitale, offrendo servizi più o meno gratuiti nella speranza di poter consolidare un brand mondiale, rifinanziando così l’investimento a tassi molto più agevoli.
Alcune Dot-Com sono diventati potentati economici che producono ricchezze superiori al PIL di un paese sviluppato e i nomi li conosciamo tutti. Altre, che pure parevano avere lo stesso potenziale di un Google o di un Amazon, le abbiamo dimenticate, a meno che nomi come pets.com non vi dicano qualcosa. E questo è avvenuto in quanto il successo delle Dot-Com era sostanzialmente vincolato alla più darwinista regola del capitalismo di ventura: get big or die trying.

Il 10 marzo del 2000, grazie alle Dot-Com, il NASDAQ raggiunse uno dei suoi massimi storici: 5132.52 punti. Image credits: investire.biz

Va detto, per capire il fenomeno delle Dot-Com, che la ricerca di capitali azionari era all’epoca estremamente semplice: i mezzi d’informazione settoriale, comprese autentiche auctoritas come Forbes, invitavano a investire forte nel settore, nonostante un profilo di rischio sotto gli occhi di tutti.

Servizi digitali oggi totalmente dimenticati arrivarono a raccogliere aumenti di capitali monstre, aprendosi le porte di investimenti inimmaginabili. Allo stesso tempo, però, si sarebbe profilata per le Dot-Com un’urgenza pressoché assoluta: aumentare a dismisura la propria customer base, da cui sarebbe dipesa la sopravvivenza stessa dell’impresa. Questo, anche a costo di sostenere iniziali perdite a bilancio salatissime.

Come sempre, non esiste una strada maestra che conduca all’acquisizione di clienti su larghissima scala. Una di queste, può essere il servizio stesso e la sua qualità: proprio in quegli anni, Page e Brin ottimizzarono Google, staccando definitivamente la concorrenza di tutti i player in fatto di indicizzazione dei contenuti online.
Tuttavia, un altro mezzo per ottenere un risultato analogo è quella che, se vogliamo dirlo con un patinato anglicismo, potremmo definire brand awareness e se volessimo essere più terreni chiameremmo “pubblicità a spron battuto.”
E rieccoci con le idee un po’ più chiare incollati al televisore tra un touchdown e l’altro, in quella notte di gennaio di ventidue anni fa, davanti a un commercial che si definisce orgogliosamente The worst commercial on the Super Bowl.

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Gli startupper terribili che sconvolsero 100 milioni di americani

Immaginatevi di aver fondato, un po’ per gioco e senza nulla da perdere, una startup con i migliori amici del liceo. Avete poche idee, alcune buone, altre da mettere a fuoco e altre ancora decisamente da rivedere. Improvvisamente, vi ritrovate chiamati a dover ideare uno spot per il Super Bowl, che per cento milioni di americani sarà il first contact con il vostro brand. Potreste, alla luce dei capitali milionari attirati, affidare il progetto creativo alle migliori agenzie e menti in circolazione. O, al contrario, ribaltare il tavolo e fare quel che troppo spesso si fa in una startup posta di fronte a sfide fuori portata: optare per il fai da te.
Può sembrare un gioco, ma è esattamente quello che accadde con lo spot che abbiamo linkato sopra.
Non conoscete lifeminders.com? Non ne sapevamo nulla nemmeno noi e con tutta probabilità gli stessi fondatori non avrebbero gran voglia di parlarne, se interpellati oggi al riguardo. Si trattava sostanzialmente di un servizio di programmatic content, diremmo oggi: un provider di contenuti targettizzati capace, attraverso la posta elettronica, di inviare mail su argomenti d’interesse.

L’inglorioso destino di lifeminders.com, riassunto in una sola, potentissima, risorsa visuale.



La leggenda vuole che lo spot fu creato dal founder in soli sei giorni: vedendolo non stentiamo a crederci.  Nonostante una realizzazione tecnica orgogliosamente impresentabile, la creatività di lifeminders.com convertì più di 700.000 iscritti in una settimana, che dopo aver sghignazzato corsero in realtà a fare ricerche a riguardo. Non bastò evidentemente a costruire una community duratura: il servizio fu acquisito nel 2001 da Cross Media Marketing e il suo url punta a un angolo di nulla nel cyberspazio da due decenni interi.


Va detto che ci furono anche casi di maggiore avvedimento. Come detto, le Dot-Com godevano di disponibilità finanziaria quasi illimitata. Ci fu effettivamente chi si fece affiancare dal gotha dell’industria pubblicitaria americana, investendo budget degni di una CocaCola. Fu il caso di pets.com: un servizio di delivery specializzato in cibo per animali. L’impresa scelse nientepopodimeno che TBWA (affiancata per l’occasione da Chiat e Day), che effettivamente realizzò un lavoro all’altezza (dopo aver presenziato anche al Big Game del 1999).

Non fatevi ingannare dalle sembianze amatoriali: il commercial è costruito su un insight di rara finezza. Non a caso, fu amato al punto da divenire – in termini odierni – virale, complice anche il memorabilissimo jingle. Anche in questo caso, non fu però abbastanza: pets.com andò incontro a un rovinoso crash.

Quello che fa sorridere delle Dot-Com in gara durante il Super Bowl numero XXXIV è in generale è un approccio da parvenu totalmente consapevoli di esserlo. Di qui, per dirla con una nota di colore, il comportamento da punk invitati a un tè tra baronetti.

Più di una creatività irrideva apertamente il contesto, sottolineando il costo astronomico della concessione o la propria inadeguatezza alla sfida di una comparsata in quella sede. È il caso di E*Trade: antesignano dei moderni Forex o eToro si trattava di uno dei primi servizi di online trading.

Il commercial trasmesso quella sera è posto sull’ambiguo crinale tra gloria imperitura e nonsense.

Una scimmia ammaestrata balla una sorprendente Cucaracha al cospetto di due anziani divertiti, che tengono il tempo. Conclusasi l’esibizione circense, un visual ammonisce:

Abbiamo appena speso due milioni di verdoni. Cosa stai facendo coi tuoi soldi?

Tra tutte le compagini del Dot-Com Super Bowl, E*Trade è quella che ha avuto effettivamente l’avvenire più roseo: dopo un’avventura ventennale è stata acquisita da Morgan Stanley, che ha speso la bellezza di 13 miliardi di dollari per aggiudicarsi il marchio.

A proposito di spese, cerchiamo di tirare le somme. Si stima che quell’anno dei 130 milioni di dollari di budget stanziato per le concessioni del Super Bowl, 44 venivano da capitali connessi alle DotCom. L’investimento fu ripagato? Il quadro è meno confortante di quel che le prospettive milionarie di quella stagione facessero sperare.


L’advertising non fa miracoli

Come andò a finire è più o meno storia. Le Dot-Com causarono una bolla finanziaria che per poco non travolse la New Economy ancora in fasce. Il NASDAQ raggiunse il suo picco storico quasi quaranta giorni dopo quella notte, il 10 marzo 2000. La corsa agli investimenti si fermò bruscamente: il panic selling dei titoli azionari fu innescato dalla diramazione di una serie di report che mostravano come le Dot-Com fossero dei gusci vuoti, che non generavano sostanzialmente alcun profitto. In un giorno il mercato fece registrare perdite per l’8%, che per poco non ci fecero rimettere anche le realtà virtuose e già profittevoli. Amazon, per esempio, vide il valore delle proprie azioni scendere da 107 a 7 dollari.
Chi emerse integro dallo scoppio della bolla, però, si ritrovò fermamente in possesso della leadership di mercato. Ieri come oggi, the winner takes it all, insomma.

Questa vicenda dovrebbe servire da monito soprattutto in vista di quello che accadrà quest’anno sul green pubblicitario: come vi abbiamo già raccontato sarà l’anno di criptovalute e NFT. Forti dei primi profitti milionari, queste realtà cominciano a pompare milioni di budget pubblicitario nelle casse delle concessionarie mediatiche: i signori delle crypto saranno all’altezza del Big Game?
Possiamo fare speculazioni, oppure constatarlo concretamente. Nella notte tra domenica e lunedì, la redazione si riunirà per recensire tutte le creatività in onda negli intermezzi. Non perdetevi l’occasione di vivere la notte pubblicitaria dell’anno: vi aspettiamo sulla nostra live page!


Ci leggiamo presto!

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